Prima delle elezioni

Trump, magistrati e sinistra Usa hanno imparato dai colleghi italiani: preparano la guerra civile

Daniele Capezzone

Noi italiani arriviamo assolutamente preparati a questa versione statunitense di una nostra specialità nazionale, ovvero l’uso politico -elettorale della giustizia. Cos’è infatti la vicenda Trump, nel senso dell’attacco per via giudiziaria a un avversario politico, se non la trasposizione sulla scena americana di un format largamente sperimentato in Italia contro Silvio Berlusconi? Lo schema è stato collaudato qui.

Non si riesce a sconfiggere un avversario in campo aperto, o comunque non si è certi di poterlo definitivamente escludere dall’arena? E allora lo si aggredisce attraverso inchieste e processi, sommati a un consolidato meccanismo di character assassination mediatica. Nel frullatore devono entrare tre ingredienti: l’odio politico, l’offensiva giudiziaria, e soprattutto una condanna etica assoluta. Al nemico non deve essere riconosciuta alcuna dignità.

Ecco, tutto questo armamentario è stato esportato negli Usa come un prodotto made in Italy, ed è adesso sparato con impressionante violenza contro Trump. Il quale reagisce da par suo, con dichiarazioni di eccezionale durezza, ma - va detto- assolutamente motivate nell’indignazione che le anima. A essere ottimisti, si può sostenere che, dopo questa sentenza, Trump sia stato “condannato” ad altri quattro anni di presidenza, nel senso che molti americani potrebbero essersi ulteriormente convinti di doverlo sostenere il prossimo novembre. Anche se è veramente complicato, a caldo, valutare l’effetto elettorale della condanna: se scalderà il cuore degli elettori trumpiani o se scoraggerà i potenziali indecisi.

 

 

 

I RISCHI DEL GIORNO DOPO

Ma a essere pessimisti, c’è da temere - qualunque sia l’esito delle urne presidenziali- la situazione del giorno dopo, quando pare altamente improbabile, a questo punto, che lo sconfitto riconosca la legittimità del vincitore. Si è accusato Trump, non senza ragioni, di essere stato lui il primo a non aver accettato il verdetto del 2020 (pure gravato da pesantissime ombre sul voto postale), e certamente la manifestazione del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, sfuggita di mano allo stesso tycoon, resta una pagina scura nel romanzo della sua avventura politica. E non c’è dubbio che tuttora Trump, per il suo linguaggio e i suoi toni (lontanissimi dal “sole in tasca” berlusconiano), si muova su un crinale rischioso: chiunque assista a un suo comizio torna a casa “ready to fight”, pronto alla battaglia, non certo a un pacato confronto con i portatori di opinioni diverse.

Ma - attenzione - non facciamoci ingannare dal racconto progressista: è soprattutto la sinistra a raccogliere ciò che essa stessa semina da anni, con campagne selvagge di demonizzazione, ora aggravate dall’uso del bazooka giudiziario. E questa operazione delle toghe contro Trump, essendo palesemente animata da connotati politici, non potrà che peggiorare la situazione, incendiando il clima e creando altro risentimento.

Chi può credere alla serenità di un procuratore come Alvin Bragg finanziato da Soros al momento della sua elezione (quando già prometteva di perseguire Trump) o alla terzietà di un giudice come Juan Merchan, progressista a sua volta, che ha usato ogni espediente per orientare la giuria in direzione anti-trumpiana? In questo senso, è come se gli inquisitori dell’ex presidente (a maggior ragione quando usano accuse fragili e perfino pretestuose per incriminarlo e condannarlo) non si curassero degli effetti dirompenti che stanno contribuendo a scatenare, delle conseguenze politiche e sociali del loro operato.

 

 

 

OLTRE LA POLARIZZAZIONE

Cosa intendo dire? Anche politologicamente, è ormai vasta la produzione saggistica sulla “polarizzazione”, cioè su un’estrema avversione tra le parti, su un dibattito pubblico sempre più lacerante. Ma qui - con l’assalto giudiziario contro Trump - siamo già oltre. E cosa c’è oltre la polarizzazione, qual è il passaggio successivo? C’è un concetto ben noto nella storia e inquietante per definizione: una sorta di “guerra civile” (per ora strisciante e non ancora conclamata), un rifiuto radicale dell’idea stessa di poter essere governati dall’”altro”, dal “nemico”, cioè da Trump.

Il fatto che sia Joe Biden in persona ad attizzare il fuoco è elettoralmente facile da spiegare: l’attuale inquilino della Casa Bianca sa che le sue (non elevate) probabilità di conferma sono proprio legate alla creazione di una mobilitazione nazionale anti-trumpiana, a un clima da Annibale alle porte. Ma tutto questo non fa che versare altra benzina sul fuoco. E, a dispetto delle apparenze (che giocano contro il “cattivo” Trump), i veri piromani sono proprio i progressisti: politici, giornalisti, magistrati. Per lo più orientati a senso unico: e anche su questo punto in Italia non abbiamo bisogno di particolari spiegazioni. Arriviamo preparatissimi.