Toghe

Giustizia, riparte l'offensiva togata: anti-politica e riforme (con Conte all'incasso)

Francesco Damato

La dice lunga il carattere non sindacale ma orgogliosamente “culturale e costituzionale”, e quindi irriducibile, dell’opposizione alla riforma della giustizia annunciata al Guardasigilli Carlo Nordio dal presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, Giuseppe Santalucia in un incontro dettato non so se più dalla preparazione del disegno di legge del governo o dalla vigilia del congresso nazionale delle toghe. Dove è stata peraltro confermata con comprensibile compiacimento dallo stesso Santalucia la presenza ormai abituale del capo dello Stato, ma anche del ministro una volta di Grazia e ora solo di Giustizia, nel clima politico creatosi col crollo giudiziario della cosiddetta prima Repubblica. Nel clima cioè del “forte squilibrio” nei rapporti fra magistratura e politica, a vantaggio della prima, certificato da Giorgio Napolitano al Quirinale. Quando egli scrisse una coraggiosa lettera alla vedova di Bettino Craxi colpito con “severità senza uguali” per il fenomeno generalizzato del finanziamento irregolare, anzi illegale della politica.

D’altronde, quel finanziamento anche quando è diventato regolare, e legale, con tanto di registrazione nei bilanci di chi dà e di chi riceve- come ha appena sperimentato il governatore della Liguria Giovanni Toti finendo agli arresti domiciliari per corruzione- si presta ad essere letto e interpretato nei modi più diversi, anche criminogeni. Poi saranno i processi, di vario grado, a giudicarli. Intanto si svolgono con rito immediato e sommario i processi mediatici, con la gogna degli imputati. Poi assolti di frequente a babbo morto, diciamo così. L’opposizione - ripeto - “culturale e costituzionale” dei magistrati alla riforma della giustizia pur ancora in cantiere governativo si svolge in coincidenza con un’offensiva giudiziaria contro la politica che spazia dal sud al nord, dalla Sicilia al Piemonte, dalla Puglia alla Liguria. E chissà dove altro sino alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno, cui ne seguiranno altre di livello diverso già quest’anno e in quello prossimo. Elezioni e relative campagne tutte condannate, volenti o nolenti, ad essere condizionate dalle cronache giudiziarie. Rispetto all’offensiva di più di 30 anni fa, quella delle enfatiche “mani pulite” di rito ambrosiano e derivati, questa in corso sembra condotta con più accortezza o furbizia, investendo oggi il centrodestra e ieri il presunto o effettivo centrosinistra, o come altro lo si voglia o possa chiamare, e domani di nuovo il centrodestra. Ma di turno c’è sempre un beneficiario quanto meno aspirante.

 

 



L’ALLEATO DI TURNO
L’altra volta toccò alla sinistra nominalmente post-comunista, che pensò peraltro illudendosi- di salvarsi dal crollo del muro di Berlino e di tutto il resto spingendo o comunque vedendo in galera o in fuga gli avversari. Questa volta tocca a ciò che resta del grillismo guidato da Giuseppe Conte, candidato autolesionisticamente già dal Pd fra il 2019 e il 2020 alla guida dei “progressisti”, addirittura. Egli è in vantaggio rispetto alla concorrente Elly Schelin per il totale controllo che ha del suo vascello, salvo sorprese del “garante” restituitosi per ora al teatro in senso stretto, peraltro consulente a contratto del movimento che si era proposto di portarci fra le stelle. E ci ha invece sprofondato nelle stalle di conti impazziti per le esperienze del reddito di cittadinanza e dei superbonus edilizi.

Anche Conte potrebbe tuttavia svegliarsi o ritrovarsi spennato come l’ex Pci degli anni Novanta. Che fu sorpreso da Silvio Berlusconi. Ora Conte deve vedersela non tanto con la concorrente del suo campo, la già ricordata Schlein, quanto con una tosta avversaria come Giorgia Meloni. Che è molto meno vulnerabile, per tante ragioni, anche di genere e di anagrafe, della buonanima di Berlusconi. Dovrebbero pensarci un po’ sopra anche quei magistrati - non importa quanti di numero e d’altro - che più o meno consapevolmente stanno facendo sognare il “Giuseppi” di vecchia e rinnovata memoria trumpiana. Essi potrebbero entro questa stessa legislatura scoprire che in fondo fanno molto meno paura dei loro colleghi di oltre trent’anni fa. I quali mobilitavano piazze e magliette ora prese da altri problemi. O sommerse da quel nulla che è o rappresenta il partito dell’astensionismo, in testa a tutte le classifiche elettorali, reali o virtuali che siano, tra risultati effettivi e sondaggi, o “intenzioni di voto”.