In Appello
Davigo condannato: il "manettaro" punito dal karma
«Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli». Chissà quante volte gli indagati torchiati da Piercamillo Davigo avranno riflettuto sulla frase con cui J.L.Borges evocava il terrore ancestrale del giustizialismo. Chissà quante volte, in questi mesi di limbo da condannato in primo grado, lo stesso Davigo avrà evocato Borges, magari nel buio della sua stanzetta (quando non si trovava sotto i riflettori degli studi televisivi), nell’attesa dell’appello, vieppiù nella scomoda posizione di sentirsi reo pur convinto di non esserlo.
Oggi, il karma del dottor Sottile ha disegnato il suo spietato arabesco. La Corte d’Appello di Brescia ha ribadito la condanna di primo grado a 1 anno e 3 mesi (pena sospesa) per l’ex pm di Mani Pulite ed ex consigliere del Csm, imputato per rivelazione del segreto d’ufficio in relazione alla vicenda dei verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. In soldoni: per i giudici di primo grado Davigo aveva perso la sua “postura istituzionale”, fatto gravissimo, per un magistrato; e per i giudici di secondo grado quella stessa postura Davigo non l’ha più ritrovata. E adesso che si fa?
Be’, adesso il dottor Davigo resta grande professionista e persona dabbene. Almeno fino a prova – e il terzo grado di giudizio - contrari. E ci rendiamo sinceramente conto del tormento di quest’uomo, di quel ritrovarsi in uno stallo lacerante. Un’impasse che l’aveva spinto ad affidarsi in processo a Steccanella, avvocato di alto rango in grado di distinguere sempre e comunque il diritto alla difesa dal dovere dell’etica (io non sarei in grado, è il motivo perché ho scelto un altro mestiere). L’avvocato, per il suo assistito aveva chiesto l’assoluzione, e invece ora la speranza ultima resta il ricorso in Cassazione. Così va il mondo. Davigo non commenta. E ci mancherebbe altro.
ERRORI DI CALCOLO
L’ultima volta che l’aveva fatto nel programma-podcast “Muschio selvaggio” di Fedez, nel dicembre scorso, aveva affermato riguardo alla sua vicenda processuale: «Non solo non ho commesso reati, ma ho fatto il mio mestiere. Ma visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono mi hanno condannato». E non era andata benissimo. La dichiarazione che a sbagliare erano, ancora una volta, gli altri ancorché colleghi giudici, be’, non era stato esattamente il massimo della strategia. Perché, in fondo, c’è sempre un giudice a Berlino diceva Brecht, che alla fine è un Davigo più Davigo degli altri. Ora, non si sfugge alla propria natura. E la natura di Davigo, sin dai tempi di Tangentopoli, è sempre stata ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere non esistessero imputati innocenti, ma solo “imputati che erano riusciti a farla franca”. Ciò gli impediva, nonostante l’indubbia preparazione tecnica e l’arguzia di pensiero, di avere quell’equilibrio necessario per chi è chiamato a giudicare e non ad accusare.
L’abbiamo detto e lo ribadiamo: per noi studenti di giurisprudenza degli anni ’90, grazie al suo puntiglio scientifico, alla sua preparazione, al suo rigore morale nascosto dietro le lenti da topo di biblioteca, Davigo era il nostro preferito tra i quattro cavalieri dell’Apocalisse del pool di Mani Pulite, Di Pietro, Borrelli, Colombo e appunto Davigo. Il preferito.
Dunque immaginatevi la delusione quando, anni dopo il fallimento di quel disgraziato periodo giudiziario che mutò il corso delle politica e della società civile, Davigo continuò a nutrire i propri demoni giustizialisti nelle prese di posizioni politiche in televisione; nelle frasi tipo «ci sono troppe impugnazioni» o «tutti quelli che in questo paese dicono di essere garantisti pensano soltanto a garantire i diritti dei delinquenti»; nella sua divisione del mondo tra «delinquenti» e «persone perbene» col sottinteso che i primi debbano avere meno diritto dei secondi.
PAROLE COME PIETRE
L’ultima uscita, ancora da Fedez, era quella sul dispiacere per i suicidi «perché così abbiamo perso una fonte». Che poi, a parte l’inquietante e totale assenza di umanità, sarebbe pure uno sfregio ai concetti costituzionali di “giusto processo” e di “presunzione d’innocenza” e un’aberrazione per chi ritiene che debba esserci, banalmente, un sacro diritto alla difesa. Epperò la morale del moralista è che, alla fine della fiera, da garantisti fino al midollo, ci auguriamo che il fiero innocentismo di Davigo si erga prepotente nell’ultimo grado di giudizio. Possibilmente evitando, mentre ricerca la postura istituzionale, di assumere la postura del Giudice Bean, l’uomo dai sette capestri che impiccava i passanti secondo la sua personale idea di giustizia, pur essendo un fuorilegge. Auguri davvero, dottore, nessuno di noi per lei agiterà il cappio...