La caduta di Diabolik

Messina Denaro "libero grazie ai ricatti": la verità sul "tesoro di Riina"

Pietro Senaldi

Matteo Piantedosi aveva avuto un presentimento: spero di essere io al Viminale quando arresteremo Messina Denaro, si era lasciato scappare. Ma che il cerchio intorno al grande latitante di Cosa Nostra si stesse stringendo lo dicevano tutti, almeno in Sicilia. Soprattutto da quando si era saputo della sua malattia. E non è un caso infatti che il boss sia stato catturato in una clinica privata, La Maddalena di Palermo, dove si era recato per fare un tampone, spiega la direttrice, sorvolando sul fatto che il padrino, sotto la falsa identità di Andrea Bonafede, beffarda e ricercata omonimia con l'ex Guardasigilli grillino originario proprio delle sue parti, fosse in cura da un paio d'anni.

 

 

 


Nel 2022 è perfino uscito un libro, "Il male non è qui", a firma della Iena televisiva Gaetano Pecoraro, giornalista di Palermo che spiegava come la partita tra lo Stato e Messina Denaro fosse da sempre truccata, perché il capo della mafia poteva contare su troppe connivenze, amicizie, complicità. L'imprendibile vantava un potere di ricatto enorme che si estendeva in modo trasversale su tutta la Regione, geograficamente, ma anche politicamente e a livello di tessuto sociale.
Per decenni si è detto che il boss era imprendibile perché nessuno conosceva il suo dna e neppure la faccia attuale. Le fotografie dell'arresto però rivelano un aspetto certo più senile ma non troppo diverso dai pochi identikit diffusi e che tutti i siciliani dovrebbero aver ben stampati nella testa. Perché allora nessuno lo ha mai riconosciuto, visto che l'aspetto di "U siccu", con Diabolik uno dei soprannomi con cui è conosciuto, tra i primi dieci latitanti al mondo, è stampato nella testa di ogni buon siciliano? E visto che, come ogni vero boss mafioso, non si è mai mosso dal suo territorio, condizione irrinunciabile per conservare il potere? L'epica celebra un carisma straordinario di cui Messina Denaro sarebbe dotato, nulla di paragonabile a Totò Riina, "U curtu", che governava con la crudeltà, o a Bernardo Provenzano, che si era autorecluso in un casolare, dove viveva come un topo, comunicando attraverso i famigerati pizzini.

 

 

 


PERSONALITÀ MAGNETICA Una personalità magnetica, come conferma anche Giacomo Di Girolamo, giornalista del Trapanese, che in una radio locale ha dedicato per anni una coraggiosa rubrica quotidiana alla latitanza di Diabolik, intitolata "Matteo, dove sei?", spiegando come il boss fosse quasi oggetto di venerazione, con migliaia di persone che sognavano di poterlo toccare, come fosse una reliquia vivente. La realtà parla di un vero esercito armato che lo proteggeva, estendendo intorno a lui un cordone di decine di chilometri di territorio presidiato dai suoi soldati, che si muovevano a bordo di Suv scuri, alla moda dei trafficanti colombiani, fermando qualsiasi sospetto. Chi lo ha cercato, e studiato, per decenni spiega che una latitanza così lunga e operativa è potuta esistere solo grazie ad appoggi molto in alto nel potere della Regione, alla «borghesia mafiosa», come l'ha definita il procuratore capo che ha acciuffato l'inafferrabile, Maurizio De Lucia. Quando Riina fu catturato, esattamente vent' anni fa, anche lui nel "blue Monday", il lunedì della tristezza, il terzo di gennaio, ritenuto nel mondo il giorno più brutto dell'anno, e sicuramente ormai di Cosa Nostra, nessuno perquisì subito il suo covo.
I malpensanti sostengono che non fu un caso, perché l'agenda dell'uomo che pensò e attuò la strage di Capaci era troppo ricca di nomi eccellenti.

Il racconto vuole che sia stato proprio Messina Denaro a impossessarsene, e da qui il suo enorme potere di ricatto, che ha fatto sì che per trent' anni mezza Regione lavorasse per tenerlo in libertà. Chissà quante volte, prima di ieri, "U siccu", malato di tumore, ha dovuto ricorrere alla sanità privata siciliana, dove nessuno lo ha mai riconosciuto per i due anni che è stato in cura. Se c'è una Sicilia scesa in piazza ieri ad abbracciare i carabinieri per l'arresto eccellente, ce n'è un'altra, parimenti numerosa e in parte altolocata, che ha protetto il boss per decenni con un abbraccio omertoso.

 

 


 

 

L'IRRUZIONE

Solo due volte prima di ieri, nel 1996 e nel 1997, lo Stato è andato vicino alla cattura del grande latitante. La prima fece un'irruzione nella casa della madre del boss, appena diventato padre, e trovò la tavola apparecchiata per tre. Ma l'irruzione avvenne troppo presto e il terzo commensale non si presentò mai a tavola. La seconda fu seguendo una donna, che usciva a tarda sera da una casa nella quale la polizia fece irruzione, trovando segni di una fuga precipitosa appena avvenuta. Poi nulla per oltre 25 anni, fino a quando Diabolik è caduto, fiaccato dalla malattia e forse indebolito dal fatto che, dopo trent' anni, il suo potere di ricatto sulla società siciliana si è inevitabilmente e pesantemente ridotto. Resta da vedere se ora il boss parlerà. Se si guarda a Giuseppe Graviano, suo amico arrestato nel lontano 1994 e che da allora poco o nulla ha detto, pesando ogni parola come merce di scambio, non c'è da aspettarsi troppa loquacità.