Retroscena
Giovanni Falcone, Ilda Boccassini, Totò Riina: come andò veramente la strage di Capaci
Ha scritto Ilda Boccassini, collega molto legata a Giovanni Falcone: «Quel 23 maggio mi trovavo in una stanza del San Raffaele al capezzale di mio padre... Terminato l'orario di visita, mi ero diretta verso le auto di servizio che mi aspettavano. L'espressione cupa, immobile, sui volti degli uomini scorta, non lasciava dubbi: era successo qualcosa di grave... Nessuno di loro proferì parola e dentro di me cominciò a salire un'ansia difficile da descrivere... riuscii a pronunciare solo una frase che non avrei mai voluto sentirmi pronunciare: «È successo qualcosa a Falcone?». Dallo sguardo che si scambiarono i due poliziotti capii di non essermi sbagliata».
Ha scritto Pietro Grasso, amico di Falcone e giudice del Maxiprocesso in primo grado: «Il suono dei passi degli agenti della scorta mi rimbomba ancora nelle tempie... Dalla radio della polizia arrivavano notizie confuse... Ma era evidente chi fosse stato colpito. Mi precipitai all'ospedale... Fu l'espressione del volto di Paolo Borsellino a dirmi che non c'era più niente da fare».
La morte del magistrato non era ancora stata ufficializzata quando squillò il cellulare di Claudio Petruccioli, pidiessino, braccio destro di Achille Occhetto: a chiamarlo era il sottosegretario Dc Nino Cristofori che voleva parlargli con urgenza. Ha raccontato Petruccioli: «Trovai Cristofori pallidissimo, prostrato. Quel che mi disse non lo dimenticherò mai. Lui - e il suo capo, Andreotti - interpretavano la strage di Capaci come un attacco per sbarrargli la strada del Quirinale. Mi impressionò che la terribile analisi fosse svolta a caldo, con certezza assoluta e una sorta di rassegnazione».
Per uccidere Falcone usarono qualcosa come 500 chili di tritolo. Il giudice aveva voluto guidare l'auto di persona e l'autista perciò era sul sedile posteriore. Giunti vicini allo svincolo per Capaci, a 600 metri da Palermo, l'autista ricordò a Falcone che poi avrebbe dovuto ridargli le chiavi, e il giudice, sovrappensiero, le estrasse dal cruscotto e fece rallentare l'auto, traendo in inganno gli attentatori che azionarono il telecomando in anticipo. La Fiat Croma bianca perciò si schiantò a circa 90 all'ora contro il muro d'asfalto che si era alzato davanti per l'esplosione. Si era creata una voragine di quindici metri per quattro coi guardail piegati che sembravano artigli. L'auto della scorta che si trovava sotto la carica esplosiva fu scaraventata a 62 metri dal cratere, e a bordo c'erano Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani, tutti morti. Accanto a Falcone c'era la moglie Francesca Morvillo.
L'autista, unico incredibilmente sopravvissuto, si chiama Giuseppe Costanza. A bordo doveva esserci anche l'amico giudice Pietro Grasso, che spesso approfittava del volo di sicurezza di Falcone per tornare a Palermo: ma la sera prima aveva trovato un ultimo posto sul volo Alitalia, e aveva preso quello».
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I SEGNALI IGNORATI - Secondo un collaboratore di Giustizia, la decisione di uccidere Falcone fu presa nel corso di un summit mafioso tenutosi nel novembre 1991 a Castelvetrano (Trapani) dove si programmò anche la morte di Claudio Martelli, Maurizio Costanzo e altri giornalisti. Presenti all'incontro sarebbero stati Totò Riina, Matteo Messina Denaro e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.
Un primo programma prevedeva di ammazzare Falcone già alla fine di febbraio, a Roma, ma il piano andò a monte per ragioni quasi risibili: l'esecuzione era prevista in un ristorante che il giudice frequentava spesso, ma i killer sbagliarono piatto: confusero il locale «il Matriciano» nel quartiere Prati con «la Carbonara» a Campo de' Fiori, dove Falcone pure andava. L'agguato sfumò.
Dirà il pentito Giovanni Brusca, l'uomo che azionò il telecomando che fece saltare lo svincolo di Capaci: «Riina disse che dovevano morire tutti, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli... Disse «gli dobbiamo rompere le corna». Tutti ascoltavano in silenzio...
Siamo a ottobre-novembre 1991» Dirà ancora Brusca: «Andreotti per ripulire la sua immagine ci provocò danni immensi... si doveva fare il nuovo presidente della Repubblica e si parlava di lui come uno dei candidati più forti. Noi volevamo che l'attentato avvenisse prima della nomina... Riina disse: «Glielo faccio fare io il presidente della Repubblica...».
Nel pomeriggio di quel giorno, il Guardasigilli Claudio Martelli stava parlando delle candidature per il Quirinale proprio con Andreotti. Martelli lo definirà «il giorno più brutto della mia vita». Cosa Nostra, invece, avrebbe dovuto definirlo il suo peggior affare: perché Falcone, col Maxiprocesso ai boss condotto miracolosamente sino in fondo da magistratura e istituzioni, aveva anche disvelato l'identità unitaria e criminale di Cosa Nostra, l'aveva umiliata, rinchiusa in gabbie inquadrate dalle tv, fatta impazzire di rabbia e infine condannata al suicidio: perché le violentissime reazioni che ne erano seguite e che ancora ne seguiranno - la morte di Falcone tra queste terrorizzeranno dapprima un Paese smarrito, certo, ma nel tempo si riveleranno gli spasmi nervosi seguiti alla decapitazione della testa mafiosa, sradicheranno Cosa Nostra dalla mentalità fatalistica di chi per decenni ci aveva convissuto, e di chi ora, finalmente, assieme alle nuove generazioni, giungerà a odiarla per quel suo volto rivelato e repellente, inguardabile, crudele e spaventato nella sua agonia.
Tutto ormai appariva chiaro nelle sue corrette proporzioni, deprivato delle urla indignate e spagnolesche di certa cialtroneria antimafia: c'era stato un collegamento tra cosa Nostra e un potere politico soprattutto andreottiano, c'era stata una conclamata mafiosità dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, nessuno metteva più in dubbio che l'omicidio del democristiano Salvo Lima fosse stato un messaggio preciso, benché dapprima rimosso o non ben decifrato. Giovanni Falcone, banalmente, aveva sempre avuto ragione e questo in Italia non è ritenuto perdonabile: «Per essere credibili», si chiese durante una trasmissione televisiva, «bisogna essere ammazzati in questo Paese?».
QUELLE MALDICENZE Era ormai isolato, snobbato dalla sinistra togata e da una parte dei moderati, da una sfilza di giornalisti infami, da una società civile immatura o indifferente e purtroppo anche da qualche amico vero. C'era stato il sottovalutato attentato dell'Addaura del 21 giugno 1989, con l'esplosivo ritrovato sotto la sua casa al mare mentre il magistrato stava aspettando due colleghi svizzeri impegnati in un'inchiesta sul narcotraffico. La vicenda, snobbata per decenni, sarà oggetto un regolare processo giunto in Cassazione il 19 ottobre 2004: ottantanove pagine che confermeranno pesanti condanne per Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia, e che pure sanciranno che i servizi segreti di Stato - sempre tirati in ballo, in Italia - non c'entravano un accidente, perché laresponsabilità fu di Cosa nostra e basta. Altre pagine della sentenza metteranno nero su bianco «l'infame linciaggio» subito da Falcone, che in buona sostanza in quel 1989 fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo. Si citano con nomi e cognomi esponenti della Rete di Orlando oltre a magistrati e alti esponenti dei carabinieri. Fu il Gerardo Chiaromonte, apprezzato parlamentare comunista e defunto presidente dell'Antimafia, a scrivere che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Era veramente difficile essere Giovanni Falcone prima che lo trasformassero in un santino da parabrezza. La sua presenza non piaceva neppure ai vicini di casa: alcuni condòmini avevano scritto al Giornale di Sicilia nel timore che un attentato potesse tirarli in mezzo. Magistratura democratica decise che il nuovo consigliere istruttore di Palermo doveva essere Antonino Meli anziché lui, e le indagini di mafia presero ad addormentarsi. Falcone scrisse al Csm: «Quello che paventavo è purtroppo avvenuto... il gruppo antimafia è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino ha dimostrato il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso... L'unica via praticabile è quella di cambiare immediatamente ufficio». Al giudice più competente in tema di mafia non passavano più inchieste in tema di mafia. Ecco perché il 13 marzo 1991 accettò di trasferirsi a Roma per dirigere l'ufficio degli Affari penali del ministero della Giustizia, portandosi dietro Pietro Grasso come vicecapo di gabinetto, uomo che il guardasigilli Claudio Martelli avrebbe anche voluto per comandare quella procura palermitana che invece fu occupata da Gian Carlo Caselli. Fu in quell'ufficio che Falcone concepì una struttura investigativa sovraordinata alle singole Procure, così da assicurare, attraverso un Procuratore Nazionale, un coordinamento delle indagini. La Superprocura antimafia nascerà grazie ad un decreto del 20 novembre 1991 che tuttavia non consentirà a lui, Falcone, di raccogliere il frutto delle sue intuizioni: il fuoco di sbarramento che gli organizzarono contro fu inspiegabile e al limite del demenziale. Tutti contro, a partire dall'Associazione nazionale magistrati. La colpa di Falcone era di flirtare con la politica. Il gruppo del Pds votò un emendamento ad hoc per escludere Falcone dalla carica di superprocuratore. Magistratura democratica definì la nuova Direzione nazionale antimafia «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all'indipendenza della Magistratura. Il bollettino della corrente, a pagina 155, parlava di «ristrutturazione neoautoritaria». I mesi che precedettero la strage di Capaci, per Falcone, furono orribili per lui quanto vergognosi per altri. 2. Continua.