In Tribunale

Torino, il nonno stupratore salvato dalla giustizia lumaca

Claudia Osmetti

Non c'è un verso buono per prendere questa storia. Come la giri, ti sale il sangue al cervello. Da una parte un papà-orco (che diventa pure un nonno-orco): trent' anni di abusi, violenze sessuali, anche di gruppo, soprusi, ricatti. Trent' anni di incubo. Dall'altra la lentezza atavica di una giustizia che si fa sfuggire ogni cosa, che s' ingarbuglia e perde tempo e allora perde significato. Torino. È il 2006 quando una donna trova il coraggio di denunciare il padre. Lei di anni ne ha 43: è da quando era una bimba che è «ridotta a una condizione di sudditanza» con i maltrattamenti, gli stupri, le vessazioni. Ogni volta che prova a ribellarsi, la famiglia la isola. Decide di darci un taglio quando l'uomo prende di mira la sua bambina. Le forze dell'ordine restano impiegano mezzo secondo a far scattare le indagini. E si apre un vaso di Pandora degli orrori che la metà basta. Sedici anni fa, c'è ancora tempo per ottenere giustizia. E infatti, in un certo senso, questa arriva: nel 2010 il padre-padrone viene condannato a undici anni e sei mesi di carcere dal tribunale di primo grado.

È qui che la vicenda si complica. Come raccontano le pagine locali de La Stampa, comincia un giro di faldoni e rimandi e sentenze e tempi morti che finisce, oggi, con una sentenza (di condanna) passata in giudicato e però l'impossibilità di eseguire la pena. Passano otto anni e non succede nulla. In ballo c'è l'appello che, nel 2018, conferma nove anni e quattro mesi di carcere. Gli avvocati ricorrono in Cassazione, ma sanno già (adesso) che siamo fuori tempo massimo: il loro assistito ha compiuto settant' annie, per legge, è altamente improbabile che possa finire in prigione. Nel 2019 la Corte di Roma rimanda il caso in appello, altri mesi che se ne vanno. Ancora una condanna. E ancora una richiesta alla Cassazione che, ora, la respinge. Il risultato è che lui, il papà-nonno-orco, oggi ha 86 anni ed è (spiegano gli addetti ai lavori) «affetto da gravi patologie incompatibili con la detenzione». La decisione c'è, presa nero su bianca, bollata con tutti i sacri timbri dei pm e dei giudici e dei cancellieri. Nel fascicolo si legge che si tratta di una vicenda «tra le più sconvolgenti che sia dato esaminate in sede processuale»: però metà dei capi d'accusa (gli abusi sulla nipote, i maltrattamenti, le singole angherie alla figlia) è andata in prescrizione, rimane il reato di violenza sessuale di gruppo del 2006, quello che ha fatto arrivare la denuncia, ci si aggrappa a ciò che resta. Con l'amaro in bocca che non può finire così. Per colpa di un sistema troppo lento e lacunoso, anche quando la verità è scritta su un foglio di carta nel cassetto di un magistrato. Siamo garantisti con tutti e lo saremo sempre, ma non vuol dire che i mascalzoni debbano farla franca.