In punta di diritto
Magistratura, traffico di influenze? Così non va: un reato fumoso che lascia troppo spazio ai giudici
Le cronache giudiziarie di questi ultimi giorni hanno visto diversi professionisti indagati per traffico di influenze illecite; si tratta per lo più di avvocati che hanno rappresentato le istanze dei propri assistiti interfacciandosi con pubblici ufficiali. Senza entrare nel merito di tali indagini, l'attualità offre lo spunto per esprimere alcune considerazioni su questo particolare quanto fumoso reato recentemente introdotto nel nostro ordinamento. Esso prevede la pena della reclusione da 1 a 4 anni e mezzo a chi sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita. Sin dalla sua nascita, questa figura criminosa ha suscitato numerose critiche da parte della comunità accademica per una serie di rilievi: il primo, perché offre una tutela troppo anticipata al bene giuridico protetto, che viene riconosciuto nel buon andamento e nella imparzialità della pubblica amministrazione; il secondo, poiché prevede una condotta troppo indeterminata giacché le norme penali devono descrivere fatti precisi e suscettibili di essere accertati e provati nel processo.
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PROBLEMI INTERPRETATIVI
Se non vi sono dubbi nel considerare illecita l'intermediazione orientata ad ottenere dal pubblico ufficiale il compimento di un atto contrario ai doveri del suo ufficio, o l'omissione o il ritardo di un atto d'ufficio, ma anche di un atto comunque dovuto con modalità diverse da quelle tipiche, vi sono rilevanti problemi interpretativi per alcune attività: quelle che sono necessariamente e fisiologicamente mediate dal professionista con un pubblico ufficiale per conto del proprio cliente, dirette a fargli ottenere una utilità connaturata alla ragione posta a fondamento dell'incarico. Si pensi al lavoro dell'avvocato che assiste il proprio cliente in un contratto con la pubblica amministrazione negoziandone termini e condizioni, al geometra che calca gli uffici comunali per sanare qualche difformità catastale della casa del proprio cliente, per arrivare alle società di lobby che tutelano gli interessi di uno o più imprese di settore promuovendo presso esponenti governativi modifiche normative che faciliterebbero l'esercizio dell'attività imprenditoriale.
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Per non parlare delle petulanti richieste di trasferimento o di promozione che i magistrati inoltravano al (trafficato) Palamara portate alla luce dai quotidiani con la pubblicazione dei messaggi conservati sul suo cellulare. Sono tutte condotte che possono agevolmente rientrare nella definizione del delitto di traffico di influenze e che determinano un inaccettabile eccesso della discrezionalità del potere giudiziario, che può decidere di avviare le indagini per alcuni casi e non per altri. Proprio per queste ragioni, non essendoci alcun obbligo (ma solo un invito) per gli stati firmatari della Convenzione di Strasburgo del 1999 e della Convenzione Onu di Merida del 2003, molti paesi come la Germania, Regno Unito, Svezia, Paesi Bassi, Danimarca, Finlandia, hanno deciso di non introdurre nel loro ordinamento il reato di trading in influence.
Peraltro, nelle citate fonti sovranazionali, la figura delittuosa ha rilievo penale solo se la condotta produce in capo al soggetto privato un "undue advantage" cioè un vantaggio non dovuto perché contrario ai principi di buona amministrazione, aspetto che però non è presente nella definizione normativa italiana che adotta l'avverbio "indebitamente", il cui significato si presta facilmente a colorazioni arbitrarie. In considerazione di questi rilievi, occorrerebbe introdurre un correttivo alla formulazione troppo astratta della norma da parte del legislatore per renderla più restrittiva, o un auspicato intervento interpretativo della giurisprudenza diretto a circoscrivere i casi ricompresi dalla norma stessa.
di Pieremilio Sammarco