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Marta Cartabia, "cosa si sperava su di lei al Ministero": un pesante retroscena dietro la sua ascesa
Marta Cartabia, 58 anni, professoressa di diritto costituzionale in Italia, in America, nel mondo, e non è un modo di dire. Inserita nelle commissioni internazionali al più alto livello. Se ci fosse un ranking dei giuristi come per i tennisti se la giocherebbe tra i primi dieci. Presidente della Corte Costituzionale fino a settembre dl 2020, prima donna dopo 45 uomini, ora ministra (così la chiama Mario Draghi, ipse dixit) della Giustizia. Chi è davvero, al di là del curriculum regale? Il nome è quello che ci meritiamo nella prova. La Marta del Vangelo è quella che fa, mette in tavola, provoca Gesù Cristo facendolo piangere, fino a spedirlo a far risorgere Lazzaro.
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La Cartabia è davvero Marta, adesso però. Prima contemplava il diritto sui monti elevati della scienza purissima. Studiare, ascoltare, ma in alto. Quando le fu proposto il ministero di via Arenula, ci fu chi pensava si sarebbe rovinata. Fosse addirittura una trappola per bruciarle i piedi nell'ascesa al Quirinale dove pareva predestinata, purché non si mescolasse giù, la in basso, dove gli alligatori mordono le caviglie degli angeli e soprattutto delle arcangelesse ignare. Si pensava che si sarebbe spiaccicata, schienata con un colpo di lotta poco greca e molto romana, scendendo dalle vette dove tirava di fioretto con i fuoriclasse della giurisdizione planetaria. Invece no. È diventata ciò che doveva essere: Marta. E così oggi come oggi (domani vedremo, lei non pare avere progetti, a ogni giorno basta la sua pena, purché in regola con l'articolo 27 della Costituzione) è il primo ministro della Giustizia ad aver infilato il cuneo d'acciaio della riforma nel granito fino ad ora inscalfibile di una magistratura riottosa a qualsiasi anche solo ritocco del proprio sistema di potere assoluto e onnipervasivo. Accidenti se la ministra ce l'ha fatta.
FIDUCIA
Conosciamo le critiche, sono anche le nostre, se partiamo dall'ideale immacolato di giustizia giusta. Poca roba questa riforma? Ah sì? Sarà pure una riforma all'acqua di rose, ma è un inizio, una crepa nella muraglia. Una fenditura che è penetrata nella caverna dell'inamovibile status quo dell'apparato giudiziario. Spaventa i vampiri. Si voterà la fiducia, è fatta. Dopo che persino il Consiglio superiore della magistratura le ha lanciato l'anatema, lei non intende recedere, o ricollocare i frammenti che i suoi gentili colpi di martello ha fatto schizzare intorno, suscitando l'ira vertiginosa dei mozza-orecchi d'Italia. Non alzerà la voce. Ascolterà, pazienterà. Farà un occhiellino qua, tirerà un filo lì. Ma l'ordito non lo tocca. La lunghezza spasmodica dei processi non c'è più. Che lingua parli, un italiano luccicante, lo abbiamo imparato tutti giovedì sera quando Draghi ha invitato la ministra a spiegare in poche parole la legge che lei stessa ha voluto fosse sottoposta alla fiducia delle Camere. Con un lavoro meticoloso, di taglio, cucito, strappo, rammendo e ricamo aveva composto un testo che è il massimo che un governo tutti -dentro -o -quasi poteva permettersi persino sull'isola di Utopia. Ha ottenuto l'unanimità del consiglio dei ministri. Ha detto: «Ridurre i tempi dei processi, è un imperativo del diritto. Ce lo impone l'Europa, con il Pnrr. Ma non è questa la ragione profonda. È questione di giustizia». Si possono aggiustare i particolari tecnici. L'impianto è quello e non si tocca. Dopo i ritocchi, si rivoterà la fiducia. Dai principi non si deroga. Poche ore prima di quelle parole, a consiglio dei ministri non ancora radunato, era partita la scomunica del Consiglio superiore della magistratura.
Chiaro l'intento di provocare l'altolà. Il Fatto di Travaglio aveva subito rilanciato on line il diktat. La sesta commissione - quella dedicata al contrasto contro la corruzione, la mafia e il terrorismo - senza alcun voto contrario aveva usato la parola "negativo". Una condanna secca. Avrebbe tradito "alcuni principi dell'ordinamento come l'obbligatorietà dell'azione penale e la ragionevole durata del processo". . Dare a lei della nemica della Costituzione è come darle dell'anti-Cristo a cavallo. Non urlerà, né sbraiterà. La sua tecnica è quella di Messi. Tratterrà la palla senza reagire alle provocazioni, portategliela via se ci riuscite. Quando fu nominata ministro della Giustizia ci fu chi spifferò: «Marta Cartabia si è bruciata il biglietto per il Quirinale». Ha scelto di essere sé stessa, invece di lisciarsi il curriculum, e insistere nell'insegnamento alla Bocconi e nelle escursioni sul Gran Paradiso con marito e i tre figli. Per il paradiso c'è tempo. Osservando la rassegna stampa si apprendono definizioni di status a suo riguardo, cioè cattolica, una giovinezza in Comunione e liberazione, mai peraltro abbandonata. Ma osservarla in azione è più interessante. Se ne comprende il temperamento. Nel 2010 il 21 agosto a Rimini incontra il presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, ospite del Meeting. È presente il giurista americana ebreo Joseph Weiler, uno degli uomini più colti del nostro tempo, che ne vanta la «straordinaria erudizione» oltre che «l'originalità». Napolitano ascolta. Due giorni dopo parla sulla Costituzione prima di Giuliano Amato che inizia così: «Brava!». Lei salta su. Mostra di non gradire la condiscendenza. Non è la valletta dei giganti. È la professoressa Cartabia. Quindici giorni dopo, a 48 anni, è scelta dal Quirinale per la Consulta.
PER LE CARCERI
Oltre che le pagine dei manuali, gira le prigioni. Non ci va per una conferenza. Ci passa giornate: a San Vittore, a Rebibbia. Ne resta segnata. Non esiste nessuno che non possa essere riguadagnato alla società come uomo vivo: vivo anche durante la pena. Così si spiegano gli interventi sul mondo del carcere. Non solo per rendere umana la privazione della libertà dei reclusi, ma anche per le guardie carcerarie. La sua visita a Santa Maria Capua a Vetere è esemplare. Trovare le cause dei pestaggi, non nella cattiveria della penitenziaria, ma nel sistema canceroso, che anch' esso è parte dell'universo giudiziario malato. Incidere sulla durata dei processi non è un altro libro e un'altra lingua rispetto a un sistema di pena e di custodia cautelare rispettoso della giustizia. Non ci credeva nessuno. Non sono più i magistrati a dire resistere, resistere, resistere. È la Cartabia.