Cpi

Da Prodi a Rutelli, il ruolo dell'Italia nella Corte dell'Aia

Corrado Ocone

La Corte Penale Internazionale, che è in questi giorni al centro del dibattito politico, ha sede all’Aia. Pochi sanno, però, che l’Italia ha avuto un ruolo centrale al momento della sua creazione. Fu infatti a Roma che il 17 luglio 1998 venne firmato lo Statuto costitutivo dell’organizzazione. La stipula avvenne a conclusione di una conferenza di plenipotenziari appartenenti a 148 nazioni. I lavori, pagati interamente dallo Stato italiano, erano iniziati a metà giugno ma si erano poi allungati a causa dei dubbi giuridici e morali, e non solo politici, manifestati da vari Paesi.

Alla fine molti Stati votarono contro; oppure, come l’America e Israele, decisero di non entrare a far parte del nuovo organismo. La firma avvenne sotto la pressione esercitata da una pletora di organizzazioni non governative, promotrici fra l’altro il14 luglio di una fiaccolata tesa a favorire la conclusione positiva dei lavori. Alla testa di essa vi erano il presidente del consiglio del tempo, Romano Prodi, e il sindaco di Roma, Francesco Rutelli. Quale più “nobile” e “progressista” idea poteva esserci, ai loro occhi, se non quella della nascita di un organismo internazionale che avrebbe punito gli autori dei “crimini di guerra” e di quelli “contro l’umanità”? Il problema di chi dovesse decidere quali fossero i primi e quali i secondi, e con che legittimità, non li toccava proprio.

Eravamo allora nel pieno dell’età della globalizzazione e a molti, anche in buona fede, sembrava doveroso portare a termine quel lavoro di “moralizzazione” della politica iniziato subito dopo la seconda guerra mondiale con l’istituzione dell’Onu e di altri organismi simili. Senonché, le strade dell’inferno, come è noto, sono lastricate di buone intenzioni. I più accorti, come in Italia Benedetto Croce, avevano avvertito già negli anni Quaranta dei pericoli insiti nel processo che si stava mettendo in moto: le loro previsioni si sarebbero con gli anni puntualmente avverate.

 

È successo infatti, da una parte, che molti di quegli organismi siano finiti in mano a regimi autoritari; dall’altra, che alcune decisioni politicamente sensibili siano ormai competenza di giudici che non hanno nessuna legittimità democratica non essendo stati votati. L’ideologia che fa da supporto a questo processo può essere considerata una radicalizzazione ed estensione di alcune istanze proprie del giusnaturalismo classico recepite dai moderni stati nazionali. Questi stati hanno infatti sancito nelle loro costituzioni l’esistenza di pochi “diritti fondamentali” assolutamente non negoziabili o scalfibili dal potere politico: la vita, la libertà, la proprietà.

Lo “stato di diritto” così concepito si fonda sull’eguaglianza formale dei cittadini davanti alla legge e sulla presenza di giudici terzi tenuti ad applicarla. Negli ultimi decenni, tuttavia, gradualmente una concezione estensiva dei diritti da tutelare, proprio mentre ai giudici veniva riconosciuto il potere di interpretare e non solo di applicare la legge in un’ottica “evolutiva” o progressista. Questa concezione sostanzialistica del diritto a mala pena però è riuscita ad occultare, dietro la maschera della moralizzazione, i concreti interessi che le stavano dietro, del tutto manifesti quando si realizzano perverse convergenze fra l’antioccidentalismo dei progressisti e quello degli stati autoritari.

 

Il mandato di arresto spiccato nei confronti del premier israeliano Netanyahu è da questo punto di vista emblematico. Insomma, la politica, scacciata dalla porte, è rientrata dalla finestra. E, per di più, sottratta a quel minimo di legittimità democratica che gli stati nazionali erano riusciti a garantire. Il super-Stato giuridico globale a cui questo proceso tende non può allora essere altro che una distopia. Se lo si realizzasse, l’interprete della legge si trasformerebbe in un politico, cioè la creerebbe, e in più, in nome dei “diritti” da lui stesso definiti, non ammetterebbe nessua voce contraria al suo dire.