Il colloquio
Carlo Altomonte: "Bce e Superbonus pesano sul debito, la l'Italia regge"
L’ultimo a intervenire è stato il ministro dell’economia Giorgetti, pochi giorni dopo il decimo rialzo consecutivo. «Se i tassi fossero rimasti ai livelli di uno o due anni fa, ci sarebbero 14-15 miliardi in più» per la manovra. Ma la preoccupazione che aleggia dalle parti di Palazzo Chigi e di via XX Settembre ha una ragione ben precisa: un po’ per la crescita, storicamente asfittica, dell’economia, un po’ per l’enorme mole di debito pubblico, l’Italia patisce più degli altri Paesi europei le decisioni di Francoforte. «Sì, ma aggiungerei che proprio perché soffriamo più di altri la politica restrittiva non possiamo permetterci colpi di testa» spiega a Libero Carlo Altomonte, professore di politica economica europea all’università Bocconi. «Non possiamo permetterci l’incertezza sul Superbonus, sugli extraprofitti bancari e sulla capacità di realizzare gli investimenti del Pnrr. Perché questa incertezza ci viene immediatamente scaricata addosso in termini di maggiore spread».
Professor Altomonte, da cosa dipende la crescita dei rendimenti dei titoli di Stato?
«Sicuramente c’è il tema dell’aumento dei tassi della Banca centrale europea, che incide sui tassi a breve termine. Questo influenza i rendimenti a breve dei titoli di Stato, in tutta l’area euro. Sui titoli a lunga scadenza, come i Btp decennali, il rendimento è invece la media delle aspettative sul rendimento dei titoli a breve e su dove andranno i titoli in futuro. Siccome durante l’ultimo meeting la Bce ha detto che i tassi resteranno alti per un periodo abbastanza lungo di tempo, il mercato ha cominciato a scontare il fatto che i tassi non scenderanno, almeno non nei prossimi mesi. Questo produce un effetto di trascinamento su tutte le scadenze, anche quelle più lunghe».
È quanto avvenuto un po’ dappertutto, anche negli Usa.
«Si tratta di una situazione generalizzata. Il Tresaury decennale americano ha superato il 4,5%, mentre il Bund tedesco di pari durata si trova intorno al 3%. Insomma, i maggiori rendimeni sono un effetto fisiologico degli annunci delle banche centrali. Certo, all’interno dell’eurozona c’è evidentemente un tema idiosincratico, cioè specifico dei singoli Paesi, per i quali si fanno valutazioni legate, da un lato, alla quantità di debito e, dall’altro, al tasso di crescita e quindi alla capacità di ripagare il debito». Vede un caso -Italia? «In Italia c’è un insieme di questioni che ha lasciato il mercato incerto, per non dire perplesso, sui prossimi mesi, in particolare sull’andamento della finanza pubblica. Innanzitutto, la quantificazione del deficit derivante dal Superbonus: in assenza di informazioni precise sul costo, implicitamente il debito viene percepito come un po’ più rischioso e questo comporta un potenziale aumento dei rendimenti».
E oltre al Superbonus?
«C’è il tema della tassazione degli extraprofitti, che ha indotto il mercato a dubitare della disponibilità da parte delle banche di comprare debito pubblico nazionale. In prospettiva c’è dunque minore domanda di titoli di Stato italiani, anche perché la Bce non li sta più acquistando, almeno non con l’intensità di prima, e questo ha un impatto sullo spread. Infine ci sono interrogativi sulla crescita effettiva che l’Italia sarà in grado di realizzare l’anno prossimo, stretta com’è tra la politica restrittiva della Bce, che riguarda tutti i Paesi dell’eurozona, e i dubbi sulla sua capacità di mettere a terra gli investimenti del Pnrr».
In ogni caso, la stretta monetaria della Bce farà lievitare di una quindicina di miliardi la spesa per interessi.
«Va detto che l’effetto del rialzo dei tassi non si traduce in misura di uno a uno in un aumento del costo del debito perché, per fortuna, il nostro debito ha una scadenza relativamente lunga. L’effetto del rialzo dei tassi lo pagheremo nel 2024. Se poi i tassi inizieranno a scendere, questo picco dell’aumento del costo del debito verrà riassorbito. Il tema chiave resta sempre quello della crescita. Finché il costo del nostro debito è vicino al tasso di crescita nominale, ovvero crescita reale del Pil più l’inflazione, evidentemente il debito scende molto lentamente. In un contesto di inflazione calante, se la crescita non dà almeno mezzo punto di Pil in più, il che significa passare dallo “zero virgola” a “uno virgola”, sostenere il costo del debito italiano diventa sicuramente complicato».
È a rischio la sostenibilità del debito?
«Al momento no, perché l’inflazione è decisamente elevata e il costo del debito è basso. Da qui a due-tre anni, quando l’inflazione sarà tornata intorno al 2%, se l’economia italiana non sarà in grado di crescere di almeno l’1%, avremo un costo del debito superiore alla crescita nominale. Abbiamo due o tre anni per continuare a puntare su riforme e investimenti. Dopodiché “tempo scaduto”».
Non è certo un percorso semplice.
«Gli investimenti da fare li sappiamo; le riforme pure. E ci stanno dando i soldi per farle. Insomma, non c’è da inventare nulla, si tratta di realizzare il Pnrr, senza troppi tentennamenti. Basterebbe solo quello per darci uno 0,5% in più di crescita per sempre. Questa dovrebbe essere la vera priorità nazionale; tutto il resto mi sembrano problemi di secondo ordine. Si rischia di ballare il tango delle riforme istituzionali su una nave che affonda».
Veniamo al Patto di stabilità: come valuta la riforma proposta dalla Commissione?
«La considero una buona cosa per l’Italia. In primo luogo, perché consente di impostare un percorso di rientro di finanza pubblica meno impegnativo rispetto al vecchio Patto, su un orizzonte temporale che può arrivare fino a sette anni. In secondo luogo, perché a questo percorso di rientro si accompagna un’agenda pianificata di riforme e investimenti che è strumentale nel sostegno alla crescita. Credo che al Consiglio europeo di dicembre un accordo si troverà, anche perché altrimenti non sapremmo come finanziare la transizione ambientale ed energetica».