Il reportage/Tra i palestinesi ribelli

Albina Perri

tel aviv- L’arma segreta di Yuval Diskin, direttore del Shabak, il servizio segreto interno israeliano, è l’impiego di migliaia di collaborazionisti palestinesi sparsi ovunque nella Striscia di Gaza. Sono loro che forniscono dettagli minuziosi degli obiettivi da colpire, delle case dove si nascondono i capi di Hamas, delle loro sim card, delle centinaia di tunnel ancora intatti attraverso i quali passano armi, munizioni e missili. I terroristi di Hamas negli ultimi giorni hanno ucciso sei presunte spie palestinesi, insospettiti dalla precisione dei raid israeliani aerei e terrestri, così come dal bombardamento della prigione di Gaza che ha permesso la fuga a decine di collaborazionisti. Yuval Diskin  ha costruito la sua rete negli anni, attingendo nella  massa di lavoratori palestinesi frontalieri, quelli che Israele impiega come cuochi, camerieri, muratori, operai, braccianti, manovali, che in tempi di pace ogni mattina attraversano i valichi di frontiera e al tramonto rientrano nei Territori. Il direttore dello Shabak grazie alle informazioni raccolte dai collaborazionisti è riuscito persino a ricreare nei minimi dettagli una Gaza City di cartone in pieno deserto, una  scenografia curata fin nei minimi dettagli dove sono stati addestrati i commando per l’operazione Piombo Fuso.  Ma chi sono questi palestinesi? Sono ex fedayn di Al Fatah, del Fronte Popolare della Palestina, di Forza 17, veterani di mille battaglie traditi dai loro dirigenti, padri di famiglia esasperati che non sognano più,  prima erano ostaggi di Arafat ora lo sono di Hamas. Non potendo più lavorare in Israele, dopo la chiusura del valico di Erez conseguente al lancio di missili Qassam, a centinaia si sono rivolti all’odiato Shabak in cambio di uno stipendio sufficiente per mantenere la famiglia, la scuola per i figli, un appartamento in un quartiere a sud di Tel Aviv, dove risiedono gli appartenenti a questo esercito segreto assieme alle loro famiglie ma anche molte vedove e orfani. Dopo mille precauzioni riusciamo a incontrarne tre in un bar nei pressi di Jaffa. Naturalmente niente nomi. Quello che chiameremo “Abdul” è un veterano di Al-Fatah, 55 anni, 6 figli, ha combattuto in Giordania e in Libano, poi si è accorto che ad Arafat non gliene importava niente del suo popolo, che si arricchiva a dismisura grazie ai generosi contributi internazionali mentre i guerriglieri palestinesi come lui continuavano a vivere nella miseria totale dei campi profughi. «Un giorno incontrai Abu Ammar e glielo dissi», racconta, «lui mi fece arrestare come traditore. Quando uscii dal carcere, dopo un anno, incontrai un amico, le nostre famiglie non avevano di che vivere, così entrammo in contatto con un palestinese che aveva rapporti con gli israeliani. Furono tutti molto gentili. Ci dissero: se volete darci una mano siete i benvenuti, aiutateci a individuare i vostri e i nostri nemici, in cambio ci prenderemo cura della vostre  famiglie e daremo un futuro ai vostri figli. Non mi considero affatto un traditore,  i traditori della causa palestinese sono quelli di Hamas». “Abdul” ha lavorato dietro le linee per oltre quattro anni, un record, a lui si devono gli arresti di importanti capi terroristi e operativi delle brigate Ezzedin al- Kassam. Poi è stato congedato “per meriti speciali” e si è unito alla famiglia assieme alla quale ora vive al sicuro in Israele. Gli altri due palestinesi invece sono in piena attività di servizio. “Khaled” viene dal campo profughi di Jabaliya, mentre “Omar” da Khan Younis, entrambi sono sulla trentina, sposati con figli piccoli, dopo aver trasferito le famiglie nei sobborghi di Jaffa sono rientrati nella Striscia di Gaza dove sono conosciuti come militanti di Hamas. Molte delle operazioni mirate di questi giorni sono il frutto delle loro informazioni. Il primo a parlare è Khaled: «Rivangare la storia come hanno sempre fatto mio nonno e mio padre non ha senso, io sono e resterò sempre palestinese ma bisogna essere realisti, voglio che i miei figli studino e crescano in pace accanto agli israeliani ma per arrivare a questo bisogna sradicare Hamas che rappresenta il cancro dei palestinesi». “Omar” che conosce l’intera nomenklatura di Hamas è sintetico: «Non siamo traditori ma combattenti che si battono per costruire un vero futuro per il  nostro popolo, ovunque abbiamo informatori e gente che ci appoggia e ci sostiene».  “Abdul” precisa: «Hamas colloca i lanciarazzi e i mortai in mezzo ai quartieri affollati, nei campi profughi, posiziona i suoi cecchini nelle scuole e persino negli ospedali, costruisce tunnel sotto le case. Quando noi combattevamo gli israeliani non ci siamo mai nascosti dietro le donne e i bambini». L’incontro è terminato, “Abdul” si allontana solitario sul lungomare di Jaffa,  mentre un pulmino senza finestrini inghiotte  “Khaled” e “Omar”, non è difficile immaginare dove stanno andando. Guglielmo Sasinini