All'Assemblea

Cina, sparito un altro gerarca comunista: il caso scuote il Paese, chi è Zhao Leji

Marco Respinti

Ieri a Pechino si è chiusa l’annuale riunione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo cinese dopo avere approvato, ovviamente con amplissima maggioranza e sincero trasporto, gli obiettivi economici per il 2025. Perché, scriveva lunedì 10 marzo il China Daily, «nonostante la Cina abbia raggiunto gli obiettivi del proprio sviluppo socioeconomico nel 2024, quest’anno dovrà affrontare molti fattori imprevedibili». Tradotto, dietro la retorica di un Paese capace di strombazzare la sconfitta della povertà per decreto (ma si erano soltanto taroccati gli indici), c’è la forte preoccupazione per i dazi degli Stati Uniti e per un’economia che segna il passo. La notizia eclatante è però un’altra. Zhao Leji, presidente del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo e n. 3 del Comitato permanente dell’ufficio politico del comitato centrale del Partito Comunista Cinese, ha marcato visita.

Per «un’infezione alle vie respiratorie», ha detto il suo vice, Li Hongzhong, che ne ha preso il posto (con il consenso del titolare, si è affrettato a sottolineare) in uno dei momenti clou del cerimoniale con cui la Cina fa credere di essere un Paese normale. Nelle cineserie del regime, infatti, la plenaria dell’Assemblea del popolo si svolge sempre assieme a quella della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, un duplice appuntamento fisso di marzo chiamato appunto «Due sessioni». Che sia una pantomima nodale del regime lo spiega il fatto che l’Assemblea del popolo è il fantasma del parlamento in un Paese dove il partito è uno e le elezioni zero; e che sia una colossale farsa propagandistica lo dimostra il fatto che la Conferenza consultiva del popolo è un perno della strategia del «fronte unito»: un coacervo di gruppi che sostengono il partito unico come agenti esterni simulando un pluralismo democratico inesistente. È lì che l’assenza di uno dei leader chiave del sistema si è notata di più.

 

 

Zhao, 68 anni, non si vedeva dall’8 marzo. A lungo ha parlato direttamente all’orecchio del presidente Xi Jinping tanto da essere messo a capo, dal 2017 al 2022, della Commissione centrale d’ispezione disciplinare, cioè l’ufficio contro la corruzione nel partito, strumento privilegiato delle epurazioni degli alti papaveri caduti in disgrazia (ma anche della repressione, visto che è il Politburo a decidere cosa sia la corruzione in un Paese dove possedere letteratura religiosa è equiparato a distribuire pornografia ai giovani). Lecito dunque domandarsi se il malore di Zhao non sia dovuto allo zelo dei suoi colleghi. Perché le sparizioni eccellenti del comunismo cinese sono una consuetudine più ideologica che medica, come già lo furono i raffreddori a orologeria politica dei gerontocratici sovietici. Il vicepremier Huang Ju, assenteista perché «malato in ospedale», morì nel 2007 per cause mai confermate. Il ministro degli Esteri Qin Gang fu licenziato nel 2023 con quello della Difesa Li Shangfu dopo mesi di inspiegata assenza. E l’ex presidente Hu Jintao venne scortato altrove nel 2022 in mondovisione. Perla cronaca, il ministro dell’industria Jin Zhuanglong, scomparso da dicembre, è stato ufficialmente rimosso il 28 febbraio. Le attenzioni di Xi Jinping sono letali.