Procuratrice generale
Pam Biondi, la missione della fedelissima e ferocissima di Trump
Fedelissima e ferocissima (e biondissima), Pam Bondi mercoledì scorso ha prestato giuramento come procuratrice generale degli Stati Uniti d’America e «sarà il più imparziale possibile», ha sogghignato Trump. Stando alle cronache, ha perso una volta soltanto nella sua carriera e si trattava di un cane: durante l’uragano Katrina, una famiglia della Louisiana smarrì il suo San Bernardo. Venne salvato da un’associazione, riportato in America e dato in adozione. Lo accolse Bondi, lo chiamò Noah e la bestia le sbavò accanto per un annetto. Poi la famiglia d’origine riuscì a individuarlo: Noah in realtà si chiamava Master Tank e lo rivoleva indietro. «Gli ho promesso che l’avrei protetto», fu la risposta di Bondi, ne scaturì una battaglia legale di 16 mesi, perse la custodia.
A vent’anni di distanza, la neosegretaria è sprovvista di molosso ma ha al guinzaglio un dipartimento da 113mila dipendenti (otto divisioni di avvocati, sette forze dell’ordine federali, tra cui l’FBI, 93 procuratori degli Stati Uniti) e con un bilancio da 37 miliardi di dollari. Soprattutto, il dipartimento è vessillo del Deep State, lo Stato amministrativo che tanto ha osteggiato Trump durante il primo mandato, e nemico pubblico numero uno già prima della campagna elettorale; quando l’ex tycoon entrava e usciva dalle aule di tribunale da imputato, vendeva t-shirt e spillette e adesivi per auto con la sua foto segnaletica e lo slogan “Never surrender” (mai arrendersi) e ripeteva che era una vergogna, «il vero verdetto sarà il 5 novembre, da parte del popolo» (e infatti il 5 novembre «la Vera Giuria, il popolo americano, ha parlato rieleggendomi con un mandato travolgente», ha detto).
Così, mentre il procuratore generale di New York, Jack Smith, faceva la sua campagna elettorale promettendo «di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di incriminarlo», Trump gli dava dello «squilibrato» e prometteva (e programmava) vendetta. Il dipartimento della Giustizia – filodemocratico e weaponised (strumentalizzato, usato come arma contro di lui) – andava purgato e riformato. Ed è qui che entra in campo Pam («Peem», dice Trump), al grido di battaglia «Make America Safe Again»: seconda nomina per il ruolo, una volta saltato il nome dell’ex deputato Matt Gaetz, che dovuto ritirarsi in mezzo a una tempesta di accuse sessuali. Nel 2011 è stata la prima donna procuratrice generale della Florida, carica che ha ricoperto fino al 2019. Ha 59 anni, due ex mariti, nonni campani, un’assidua presenza a Mar-a-Lago.
Ex lobbista, figura apicale dell’America First Policy Institute, think tank conservatore che era stato definito da Politico «un’amministrazione Trump in attesa», è stata partner di Ballard Partners, la società di lobbying che fu gestita dal capo di gabinetto di Trump, la Ice lady Susie Wiles. Fa parte del “cerchio della fiducia” del presidente dal 2016, era nel suo staff durante il primo mandato, lo ha difeso nel primo impeachment del 2019 (quando è stato messo sotto accusa per abuso di potere e ostacolo alle indagini del Congresso) ed era nel team legale che lavorava per annullare le elezioni del 2020.
I democratici, pur riconoscendone la professionalità, la biasimano per l’attività di lobbysta e per l’eccessiva fedeltà al presidente: si è rifiutata di dire che Joe Biden ha vinto e ha definito «diaboliche» le accuse penali contro The Donald. La sua nomina è passata con 54 voti favorevoli e 46 contrari, solo un senatore democratico si è unito ai repubblicani. Sarà l’unico che ha letto la storia, costellata da avvocati personali dei presidenti finiti con l’essere seduti al Dipartimento di giustizia. William French Smith, per esempio, avvocato di Ronald Reagan, Robert F.
Kennedy, fratello di John F. Kennedy, e John Mitchell, che gestì la campagna di Robert Nixon. Di sicuro, i dem non potranno rimproverarle l’indolenza: la sera stessa del giuramento ha emanato una dozzina di direttive nell’arco di quindici minuti. Ha istituito una task force che avrà il compito di esaminare le azioni «politicizzate» dei procuratori che hanno indagato su Trump ed eventuali casi di «abuso dell’accusa» nell’indagine sull’assalto del 6 gennaio al Campidoglio.
Un’altra task force si occuperà di indagare sull’attacco di Hamas del 7 ottobre (tra le 1.200 vittime c’erano 47 americani, 8 sono stati presi in ostaggio). Ha stabilito la cessazione delle politiche Dei (diversità, equità, inclusione, volte a tutelare le minoranze) sia nel settore pubblico che privato, pena possibili «indagini penali». Ha posto fine alla moratoria sulle esecuzioni federali dell’amministrazione Biden: gli avvocati del dipartimento, si legge, «valuteranno tutte le potenziali strade per rafforzare la pena di morte federale come mezzo di punizione valido per i crimini efferati». Ha ordinato il blocco dei finanziamenti per le “Città santuario”, circa 200 comuni che rifiutano di cooperare con l’applicazione della legge federale sull’immigrazione. Infine, ha promesso di prendere provvedimenti contro i funzionari che «sostituiscono le loro opinioni politiche personali a quelle che hanno prevalso alle urne».
Sulla scrivania, Bondi si è trovata un malloppo di carte che aumenta di giorno in giorno. Sono gli ordini esecutivi del presidente bloccati dai giudici federali perché ritenuti incostituzionali: lo stop al diritto di cittadinanza per nascita, l’allontanamento dei 2.200 dipendenti dell’Usaid (l’Agenzia per lo sviluppo internazionale), lo stanziamento di 3mila miliardi di spese sociali e la buonuscita di un altro consistente gruppo di dipendenti pubblici.