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Femminicidio abolito? Ecco l'ultima balla su Javier Milei

Costanza Cavalli

Se la stampa dem avesse avuto l’idea, o il coraggio, avrebbe chiesto a un vignettista di disegnare Javier Milei con la motosega d’ordinanza a capo di un plotone di esecuzione similmente armato. Di fronte, bendate e di spalle, una fila di donne. Eppure, rappresentare il presidente dell’Argentina come Leatherface sarebbe stato l’unico modo coerente per illustrare gli articoli che sono stati scritti sulla sua intenzione di abolire il reato di femminicidio ed equipararlo a quello di omicidio (ovvero, stesso reato, stessa pena, a prescindere dal sesso della vittima). I titoli, quantomeno poco onesti, sono stati: «L’Argentina vuole depenalizzare il femminicidio» (La Repubblica, 25 gennaio, e Open, 26 gennaio), «La violenza sulle donne e il negazionismo di Milei» (La Stampa, 30 gennaio) e altre variazioni sul tema. Intanto, tocca fare lezione, “depenalizzare”, vuol dire “togliere per legge a un fatto, qualificato reato, il carattere di antigiuridicità penale attribuendogli quello di illecito amministrativo”. Milei non ha mai parlato di depenalizzazione, né è un “negazionista” perché non nega l’esistenza degli omicidi ai danni delle donne.

Il dibattito si era aperto la settimana scorsa, dopo il discorso del leader al World Economic Forum contro il «cancro dell’ideologia woke»: «Il femminicidio comporta una punizione più grave, fa valere la vita di una donna più di quella di un uomo. Se sollevi la questione, sei considerato un misogino semplicemente per aver difeso un principio elementare della democrazia moderna e dello stato di diritto, l’uguaglianza davanti alla legge». A difendere il provvedimento, e non è scontato che il parlamento lo approverà, è intervenuto su X e con un articolo su La Nation il ministro della Giustizia Mariano Cuneo Libarona: «Il femminismo è una distorsione del concetto di uguaglianza che cerca solo privilegi, mettendo una metà della popolazione contro l’altra». Ha elencato le riforme fatte fin ora (l’inasprimento della pena in caso di reiterazione di reato, per esempio) e le ha confrontate con quelle dei precedenti governi: «Credevano che per prevenire l’omicidio di una donna fosse necessario spendere milioni in corsi femministi». E infatti il Ministero delle Donne, subito abolito da Milei, contava 1.004 dipendenti, costava 300 milioni l’anno e i femminicidi non si sono ridotti, così come non sono calati con il nuovo esecutivo (e sono allarmanti: 295 nel 2024). «Pensiamo che l’emancipazione delle donne significhi essere implacabili con coloro che le attaccano», chiude l’articolo.

 

 



Niente di misogino, piuttosto una propaggine dell’adagio di Milei: «Non mi scuserò per avere un pene», che a furia di “zac!” è una comprensibile necessità. Per essere svegli (woke) sul serio conviene leggere qualche dato: secondo il rapporto sui femminicidi dell’Onu, nel 2023 sono state uccise 85mila donne in quanto donne, il 66% in casa e nell’84% dei casi avevano una relazione con l’autore del reato. A dimostrazione che ciò che conta non è il genere ma il ruolo ricoperto dalla donna, la relazione con l’assassino, e le aggravanti sono previste dal Codice penale. Inoltre, a oltre dieci anni da quando l’Onu ha adottato la risoluzione (la 68/191 del 2013) che chiede alle nazioni di agire contro l’omicidio di donne legato al genere, i dubbi sull’efficacia delle norme sono sempre maggiori: secondo un rapporto della Queen Mary University di Londra che si concentra sul Sud America, le leggi contro i femminicidi semplicemente stanno fallendo. Anzi, il rischio è che sottostimino la vastità del problema: se sono considerati femminicidi solo quelli “di genere”, diventano invisibili quelli che avvengono come conseguenza delle mutilazioni genitali femminili o per questioni “teocratiche” negli Stati Islamici. Ma in questo caso, con la vignetta, che si fa?