Nuova vita
Donald Trump guarda al modello-Albania: Guantanamo riconvertita per migranti
Nel 2018 si era opposto alla chiusura voluta da Barack Obama e adesso con una semplice ma decisa firma Donald Trump ne cambia la destinazione d’uso: da prigione per “combattenti nemici” a centro di internamento per migranti irregolari. La base di Guantanamo convertita a hotspot al di fuori degli Stati Uniti continentali, interpretazione spiccia all’americana del modello italiano in Albania, con un trapianto nel frammento di Cuba dove sventola la bandiera a stelle e strisce. Troppo per i moralisti di casa nostra, quelli a senso unico con lo strabismo congenito a manca, già agitati dal mal di Mare Adriatico per Gjader ora costretti pure a ingoiare l’acqua salata dei Caraibi. È andata di traverso la ricetta trumpiana di gestione dei clandestini, con un decisionismo dalla tempistica inaudita nella vecchia Europa ma subito spacciato a sinistra per spregiudicatezza e, secondo copione, violazione dei diritti umani.
Che Guantanamo, nonostante latitudine e tradizione, sia tutt’altro che un villaggio vacanze è risaputo da anni; che sia una soluzione a un problema epocale è tutto da dimostrare; che possa essere un forte deterrente alla formazione delle colonne umane che da mezza America intendono a tutti i costi passare nella parte ricca sembrerebbe logico. Il messaggio è chiaro, ed è in subordine alla netta esortazione “non venite”: se venite come clandestini finite sull’isola di Cuba. Poi, si vedrà. Su questo Trump ha dimostrato una rigidità di pensiero che probabilmente gli deriva dai cromosomi degli antenati tedeschi, che negli Usa non poterono neanche pensare di sbarcare senza i documenti in ordine. Si è visto come ha gestito la crisi da operetta con la Colombia, alla quale aveva restituito per via aerea i clandestini che Bogotà si era rifiutata di riaccogliere in patria. Con secco uno-due sui dazi la Colombia ha ammainato la bandiera e il neopresidente ha mandato da Washington un segnale forte e chiaro ai latinos, col tono delicato del sergente maggiore Hartman nel film di Stabnley Kubrik «Full Metal Jacket».
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Insensibile alle proteste della presidente messicana Claudia Sheinbaum perla situazione turbolenta al confine presidiato, figurarsi se il Tycoon può impressionarsi di fronte all’involuto periodare della segretaria del Pd Elly Schlein, che quando va negli Usa esibisce il passaporto con l’aquila testabianca, o al tono messianico-apocalittico di Nicola Fratoianni, sul tandem rosso di Avs. Se Trump è appena appena fedele alla sua linea politica validata dagli elettori americani, la seconda stagione di Guantanamo Bay sarà quella preannunciata: dopo i terroristi, tocca agli «irregolari criminali», come li chiama il presidente.
Fino a trentamila, un’enormità rispetto ai numeri italiani a due cifre che già fanno sbroccare la sinistra nostrana, che ha un problema di cui non sa indicare la soluzione, fa finta che il problema non esista spacciandolo per quello che non è, o pretende che altri lo risolvano ma secondo i suoi desideri utopistici. Il giochetto funziona poco e male sullo Stivale, figurarsi al di là dell’oceano. E pare si sia inceppato anche nella Germania dei diritti, che in epoca merkeliana i migranti se li selezionò senza che nessuno facesse parallelismi imbarazzanti, e in quella contemporanea ha compiuto un’inversione di rotta avviandosi a una radicale stretta. Il modello meloniano dell’Albania, tanto avversato dalla sinistra e da parte della magistratura, non sarà la panacea del fenomeno migratorio ma non è neppure il bau bau. Tant’è che sottovoce, a mezza voce e a voce intera, mezza Europa guarda in quella direzione. Agli Usa basta guardare a Guantanamo.
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