I buchi neri del blitz
Almasri, ecco le prove dei magheggi della Corte internazionale sul mandato di cattura
Gli uffici di Karim Ahmad Khan, procuratore capo della Corte penale internazionale, avevano chiesto alla polizia tedesca di controllare i movimenti di Osama Almasri Njeem già dal 10 luglio del 2024. L’ufficiale libico, infatti, viaggiava spesso in Europa, come risulta dai timbri sui suoi documenti (tra i quali, a quanto si è appreso, spicca un passaporto della Dominica, repubblica caraibica del Commonwealth, con un visto recente che lo autorizza a entrare negli Stati Uniti per dieci anni).
La richiesta di mandato di arresto nei suoi confronti viene formulata tre mesi dopo, il 2 ottobre, e la Corte accoglie quella domanda solo nella sera di sabato 18 gennaio, con una procedura raffazzonata che assomiglia a un vero e proprio “magheggio”, messa in moto dopo che Almasri è entrato in Italia. Questione giuridicamente controversa, peraltro, e decisa con un voto a maggioranza: due giudici favorevoli e uno contrario. L’irritualità è tale che solo alle 3 del mattino di domenica 19 gennaio l’Interpol, che in questi casi collabora con la Cpi, emette la “red notice”, l’avviso rosso con cui chiede all’Italia l’arresto di Almasri. Tutto questo dopo che la presenza dell’ufficiale libico in Europa (nel Regno Unito, quindi in Belgio passando per la frontiera francese e da lì in Germania) era stata resa nota e segnalata: il 15 gennaio Almasri era stato fermato e identificato dalla polizia tedesca, e lasciato andare.
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Sono le principali anomalie delle procedure adottate dalla Corte dell’Aja che emergono dalla ricostruzione degli eventi fatta da Libero. Almasri vola da Tripoli a Londra il 6 gennaio.
Fa scalo a Fiumicino, ma non esce dalla zona transiti dell’aeroporto romano e dunque non si sottopone ai controlli di frontiera. Il 13 gennaio, a bordo di un treno, passa per il tunnel della Manica e varca la frontiera con la Francia, diretto a Bruxelles. Due giorni dopo, lungo l’autostrada tra Bonn e Monaco, la vettura su cui viaggia insieme ad altre persone è fermata dalla polizia tedesca. Almasri mostra i documenti e un biglietto ferroviario a lui intestato, per il tragitto da Londra a Bruxelles: lo lasciano andare, perché a suo nome c’è solo una “blue notice”, l’avviso blu che l’Interpol diffonde, su richiesta della Corte penale internazionale, per raccogliere informazioni su una persona di interesse e tracciare i suoi movimenti. In questo caso, gli agenti tedeschi sanno che non possono arrestare Almasri: devono solo riferire ai loro superiori, i quali informeranno la procura della Corte penale internazionale.
Se il colore di quell’avviso fosse stato rosso, la storia che stiamo raccontando e ora vede protagonisti, loro malgrado, Giorgia Meloni e altri tre membri del governo italiano, sarebbe stata diversa. Quella “nota blu” che l’Interpol aveva emesso il10 luglio, peraltro, era limitata alla Germania; solo il 18 gennaio, quando ancora non era stato diffuso il mandato d’arresto, sarà estesa ad Austria, Belgio, Francia, Regno Unito e Svizzera. Non all’Italia, dunque, che sarà coinvolta solo nelle ore successive, con modalità inconsuete.
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Tutto avviene di corsa quel sabato. Almasri è già in territorio italiano quando la Corte penale internazionale, dopo aver ignorato la presenza del libico in Germania e negli altri Paesi europei, si riunisce d’urgenza. I suoi tre giudici sono divisi sulla richiesta d’arresto internazionale avanzata dalla procura per crimini di guerra e contro l’umanità. Due di loro, la romena Iulia Motoc e la beninese Reine Alapini-Gansou, sono favorevoli; il terzo, la messicana Socorro Flores Liera, si oppone e spiega le sue ragioni nella relazione di minoranza: sostiene che i crimini che Almasri avrebbe commesso tra il 2015 e il 2024 non siano sufficientemente collegati alla crisi libica del 2011, e dunque che la Corte stia operando al di là del mandato che ha ricevuto dal consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Una pratica giuridicamente complicata, che giaceva inerte da mesi, viene così definita in fretta e furia. È il pomeriggio del 18 gennaio quando un funzionario della Corte penale internazionale chiede collaborazione all’esperto per questioni di sicurezza dell’ambasciata italiana all’Aja, il quale, a sua volta, avverte il coordinatore dell’Unità per i crimini internazionali della Criminalpol. Costui parla col funzionario della Corte, che lo mette in contatto con un agente della polizia tedesca, il quale lo avverte che Almasri potrebbe essere in Italia. Sono ancora interlocuzioni informali, senza ufficialità.
Bisogna arrivare alle 22.55 di sabato per vedere la Corte penale internazionale comunicare alla sede centrale dell’Interpol, a Lione, che la “nota blu” riguardante Almasri deve essere rimpiazzata da una “nota rossa”, quella con cui si chiede l’arresto del libico, che riguarda anche l’Italia. Passano comunque altre quattro ore, e si arriva alle 3 del mattino tra sabato e domenica, prima che i vertici dell’Interpol convalidino quell’avviso. È solo a questo punto che le autorità italiane sono chiamate ad agire.
Lo fanno subito: poche ore dopo, nella mattina del 19 gennaio, uomini della Digos e della squadra mobile arrestano Almasri, rintracciato in un albergo di Torino. Nel caos prodotto dai magistrati dall’Aja, però, è saltato un passaggio fondamentale: la procedura non è passata attraverso il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che secondo la legge è responsabile «in via esclusiva» dei rapporti di cooperazione tra il governo italiano e la Corte penale internazionale. Sarà facile, così, per l’avvocato di Almasri, ottenere la scarcerazione del suo assistito dalla Corte d’appello di Roma. E se l’epilogo della vicenda è noto, è impossibile capirne le cause e le responsabilità senza ricostruire la catena di eventi e di trasandatezze internazionali che lo hanno preceduto.