Bis alla Casa Bianca

Trump 2 al via, preparatevi: perché il ritorno di Donald per noi è un'occasione

Daniele Capezzone

Ma quindi cosa dobbiamo attenderci dal secondo quadriennio Trump, alla vigilia del giuramento? E quale può essere il modo migliore di interagire con Washington? Ecco, questa seconda domanda è forse quella a cui è più facile rispondere: già sarebbe un ottimo inizio non fare ciò che viene suggerito da troppi a Bruxelles, e cioè immaginare una surreale contrapposizione con la nuova amministrazione americana. Come Libero ha già scritto, sarebbe come chiedere a un paralitico di fare un balzo dal suo letto e appendersi al lampadario per atteggiarsi a Tarzan. Vanno considerati più o meno così - tra il patetico e l’involontariamente comico - gli aspiranti antiTrump europei che vanno candidandosi qua e là, come se l’Ue avesse le carte (militari, energetiche, economiche) per reggere a quattro ipotetici annidi rivalità e rapporti tesi.

Semmai, appare decisamente più saggio tentare di costruire un rapporto collaborativo e complementare con gli Usa. E, come Giorgia Meloni ha rapidamente intuito, proprio l’Italia può trovarsi in una posizione privilegiata. Certamente candidandosi a un ruolo di cerniera tra i due continenti, approfittando delle difficoltà di Parigi e Berlino, ma anche- cosa che fa già impazzire di rabbia gli eurolirici- giocando in proprio, puntando cioè in più di un settore su un rapporto bilaterale fortissimo tra Washington e Roma.

 

 

 


PRIMO MANDATO

E allora si torna al primo interrogativo: che farà Trump? Per molti versi, non è prevedibile. Per inciso, imprevedibile (unpredictable) è esattamente la definizione che l’allora candidato Trump diede nel 2016, in una lunga intervista rilasciata all’editorial board del Washington Post, per descrivere le caratteristiche della sua futura politica estera.

E aveva detto il vero, va riconosciuto. Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca, infatti, non sempre predicò bene, ma in compenso razzolò benissimo. Non uno dei “cattivi” del mondo, durante il suo mandato, guadagnò posizioni; l’operazione “Accordi di Abramo”, in Medio Oriente, fu eccellente e capace di coinvolgere Gerusalemme e Riad isolando saggiamente Teheran (purtroppo, come si sa, Biden avrebbe poi smontato tutto). E anche rispetto alla Russia, i comportamenti reali di Trump sono sempre stati assai migliori di alcuni suoi discorsi: è stato Trump a criticare la Germania e l’Ue per la loro eccessiva dipendenza dal gas di Mosca (e aveva ragione lui); è stato sempre Trump a rifornire saggiamente Kiev degli efficacissimi missili javelin; ed è stato ancora Trump a spiegare a Bruxelles -Parigi -Berlino che non potevano permettersi ambiguità e posizionamenti “terzi” tra Occidente e potenze eurasiatiche. Morale: l’esperienza del primo quadriennio Trump fa decisamente ben sperare anche per il futuro.

 

MOTIVI DI OTTIMISMO 2

E - sin d’ora - possiamo aggiungere tre ulteriori potenti motivi di ottimismo. Primo: la vittoria di Trump su Kamala Harris ha espresso un poderoso e forse definitivo rigetto dell’agenda woke. Parliamoci chiaro: era in palio l’alternativa tra “aperto” e “chiuso”, nel senso che un altro quadriennio dem avrebbe imposto un’ancora più soffocante cappa di conformismo culturale e di censura, malamente travestita da fact-checking e lotta alla presunte fake news. Questo pericolo è stato spettacolarmente evitato ed archiviato.

 

 

 

Secondo: ci sarà un significativo focus sul tema del contrasto all’immigrazione illegale. Anche qui, tra falsificazioni e crisi di nervi, si cercherà da sinistra di bollare come razzista e disumana la politica di Trump, puntando su un’interpretazione distorta del termine deportation. La cui traduzione italiana più appropriata - annotiamolo - non è “deportazione”, ma “rimpatrio”, “espulsione”. Dunque, non c’è nulla di violento odi xenofobo in ciò che Trump si prepara a fare: c’è semmai una saggia attenzione a preoccupazioni di amplissime fasce della popolazione che non solo non erano state ascoltate dai dem, ma erano stati irrisi dagli intellettuali progressisti e dai loro media di riferimento.

Terzo: sul piano geopolitico complessivo, Trump è già al centro del ring, come testimonia la tregua in Medio Oriente, ottenuta prim’ancora di entrare in carica. Tutti - amici e nemici - lo rispettano e lo temono, diversamente da quanto accadeva con Biden, per evidenti ragioni.

In questo ambito, occorre prepararsi alla natura negoziale e transattiva della politica estera di Trump, che crede nel deal, nell’accordo, nello scambio, nelle intese con gli interlocutori.
Agendo in modo muscolare, ma immaginando sempre una contropartita, perché - nella logica trumpiana - i partecipanti al deal non devono essere umiliati, una volta centrato il risultato primario che sta a cuore a Washington.

Da questo punto di vista, se i critici di Trump fossero razionali e non isterici, potrebbero concentrare proprio su questo le loro riflessioni, perché qui- indubbiamente- avremo a che fare con alcune incognite. Quando infatti il deal riesce, spesso si tratta di capolavori.

 

CARTA DI RISERVA

Ma che succede invece se, nell’ambito di un’intesa, le condizioni imposte anche agli amici o alla parte più vicina (nel caso del Medio Oriente, ad esempio, a Israele) sono troppo onerose o politicamente costose? O- peggio ancora - che succede se prima o poi qualcuno (a Mosca, a Teheran e soprattutto a Pechino) un deal non volesse farlo? Quale sarebbe a quel punto la carta di riserva di Trump? Sarebbe facile o sarebbe complicato, dopo essere entrati in una dimensione di negoziato e di compromesso, ritornare su una pura linea di difesa dei princìpi? Sarebbero questi gli interrogativi da porre in termini costruttivi. A sinistra, prigionieri dei pregiudizi come sono, non lo faranno. Anche perché da quelle parti non dispongono di una strategia alternativa: anzi, molto spesso sono proprio loro i più inclini al cedimento strategico nei confronti di autocrati e islamisti. E allora toccherà proprio a qualche intelligente governo di destra (e si torna a Roma e all’opportunità di una collaborazione proficua con Washington) indossare i panni di alleato razionale, capace sia di difendere il proprio interesse nazionale sia di innervare di idealità pro Occidente il pragmatismo “contrattuale” del tycoon.