L'ultimo discorso

Joe Biden accusa Donald Trump? Ma è stato lui il vero oligarca

Giovanni Sallusti

Il vecchio oligarca se ne va così, agitando il rischio che “una pericolosa oligarchia” s’impossessi dell’America, e non poteva inventarsi commiato meno credibile. Sissignore, Joe Biden appartiene intrinsecamente a un’oligarchia, una delle più potenti del globo, la classe dirigente “perenne” americana: eletto al Senato nel 1972, ha mantenuto ininterrottamente il seggio fino a passare alla vicepresidenza con Barack Obama. Biden è prodotto oligarchico per eccellenza, nel senso dell’oligarchia politica codificato da Robert Michels: i “pochi che dominano sui molti”, la “minoranza che si costituisce in classe politica”.

Ma, alza il ditino il Commentatore Unico, il vecchio Joe nel discorso d’addio alla nazione di ieri si riferiva a un’oligarchia ancora più dominante e allo stesso tempo più scissa dal principio di rappresentanza, l’oligarchia tecno-finanziaria. Peggio mi sento: il livello di ipocrisia, e di presa in giro del pubblico americano e occidentale, supera qualsiasi livello di guardia. Torniamo al verbo presidenziale: «Oggi in America sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza».

 

 

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Pare una descrizione perfetta del suo partito, l’asinello democratico, a partire da Clinton e poi clamorosamente con Obama. Durante il mandato del primo, i dem diventano il partito garante dell’ordine mondiale di Davos, con annesso il grande abbaglio: il coinvolgimento della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. È lo spartiacque che sdogana la concorrenza sleale del Dragone contro il mondo libero. Tra i risultati ci sono la deindustrializzazione di polmoni americani come la Rust Belt e la proletarizzazione del ceto medio, ovvero le radici del trumpismo, altro che “oligarchie”. Sotto Barack Obama poi, il partito diventa ufficialmente l’organo dell’élite globalista saldata irrimediabilmente con l’ideologia Woke. Un partito metropolitano, costiero, con l’agenda culturale a Manhattan e quella economica nella Silicon Valley. Sì, in quel momento il cartello delle Big Tech era in realtà un monopolio turboprogressista e politicamente corretto, e la cosa non ha mai turbato il vecchio Joe, il quale ora parafrasando oscenamente Eisenhower è in ansia per “l’ascesa di un complesso tecnologico-industriale che rappresenta un pericolo reale”.

Il complesso tecnologico-industriale c’era già, ed era compatto al fianco di Obama e poi suo, addirittura ha praticato la censura su consegna della sua amministrazione, come ha appena confessato Mark Zuckerberg. Lui, Tim Cook di Apple, Sam Altman di OpenAi, l’ex proprietario di Twitter Jack Dorsey che esiliò Trump dalla piattaforma con atto di pura ubris oligarchica, non erano una compagnia di giro caratterizzata da “estrema ricchezza, potere e influenza”?

 

 

 

Via Joe lo sai benissimo, perché la classe politica di cui fai parte ne ha goduto i benefici, perfino propagandistici, per lustri. E proprio ora, che Musk ha rotto l’unanimismo ideologico di questa ultraélite, seguito per palese ma legittima convenienza da Zuckerberg e Jeff Bezos, paventi il “rischio oligarchico”? Via, ci sono modi migliori di uscire di sena. Anche perché basterebbe scorrere il nome di alcuni finanziatori della campagna Harris: Reid Hoffman (cofondatore di LinkedIn), Eric Schmidt (ex Ceo di Google), Jon Grey (presidente del colosso finanziario Blackstone), il sempiterno George Soros (che ha sborsato il quadruplo di quanto Musk ha dato a Trump). L’intreccio con l’oligarchia economica è consustanziale alla politica. Il problema è che voi, Mister President, eravate diventati un tutt’uno con quella. E nel momento supremo della democrazia americana, quello in cui decide il popolo, è andata come è andata.