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Russia-Lituania, cosa c'è dietro la battaglia sul museo di Kaliningrad

Marco Patricelli

Chi ha paura della piccola Lituania? Nientepopodimenoché la potente e gigantesca Russia. A detta del solito Dmitrij Peskov, spericolato e radicale portavoce di Vladimir Putin, come riportato dal Moscow Times, «è uno Stato ostile nei confronti del nostro Paese» e sembra persino avanzare «rivendicazioni territoriali» nei confronti della Russia, tanto da giustificare le «profonde preoccupazioni» del Cremlino «e tutte le misure attuali e future per garantire la sicurezza del nostro Stato».

Ma stiamo parlando della Lituania di oggi o quella dello Stato federato con la Polonia che bivaccò a Mosca dopo aver vinto la guerra del 1610, tanto che la cacciata nel 1612 in epoca putiniana è diventata festa nazionale? Eh no, proprio quella appartenente all’Unione Europea e garantita dallo scudo Nato. Ma cosa avrà mai combinato Vilnius di così provocatorio? Il presidente Gitaras Nauseda si sarebbe permesso di criticare la decisione delle autorità di Kaliningrad – nell’ex Prussia Orientale rimasta exclave russa in Europa dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica – di rinominare un museo intitolato al poeta lituano Kristijonas Donelaitis (1714-1780), cancellando così il retaggio storico-culturale.

E tanto per essere diplomatici, ecco il tatto e il garbo della raffinata pasionaria slava Marija Zakharova: «Nauseda è un idiota» con «fantasie storiche». Karaliaucius, come la chiamano i lituani, ovvero sin dalla fondazione Königsberg e poi Kaliningrad, si porta dietro le anime strappate dal corpo della storia e della sostituzione etnica. Ieri simbolo del prussianesimo, oggi retaggio ingrigito dell’espansionismo sovietico, dopo il 1945, annessa da Stalin, ha perso sotto la polvere del sovietismo l’antica bellezza di città anseatica ma non il prepotente richiamo a Immanuel Kant che qui ebbe i natali: il filosofo così puntuale che gli orologi venivano regolati al momento della sua passeggiata.

Quella Prussia, prima di diventare la potenza egemone tedesca, era tributaria del Regno Polacco-Lituano (Confederazione) che nel 1410 a Grünwald aveva sconfitto i monaci-guerrieri teutonici che avevano evangelizzato i baltici, ultimi pagani d’Europa. La cavalleria pesante polacca, sempre imbattuta, e la tenace fanteria del Granducato di Lituania, avevano ridimensionato e provvisoriamente annientato sul campo di battaglia le ambizioni di espansione dell’Ordine nerocrociato che si irraggiava dal castello di Marienburg/Malbork.

Poi la storia avrebbe preso tutt’altra direzione: la Polonia sarebbe stata spartita tre volte da Russia, Prussia e Austria, sino a sparire, e così la Lituania annessa all’impero zarista. L’indipendenza sarebbe stata riconquistata alla fine della prima guerra mondiale, senza la capitale storica Vilnius. Dopo una ventina d’anni, il 15 giugno 1940, Stalin rovesciò l’Armata Rossa sulla Lituania (e il giorno dopo su Estonia e Lettonia) impadronendosene in poche ore. Quello che fece in due riprese (invasione e riconquista dai tedeschi) fu la snazionalizzazione, con esecuzioni, imprigionamenti, deportazioni di massa in Siberia, sostituzione etnica. A Vilnius se ne ricordano bene, in quanto non c’è famiglia che non abbia subito direttamente o indirettamente persecuzioni e lutti.

La riconquistata indipendenza nel 1990 è andata di pari passo con la tutela della lingua e della cultura come elementi identitari. La figura del poeta, nonché pastore luterano, Donelaitis, rientra in questa prospettiva. Di qui la levata di scudi presidenziale per la cancellazione del nome dal museo di Kaliningrad che sorge nella casa dove visse e lavorò, e il conseguente allarme rosso del Cremlino su fantascientifici disegni di espansione territoriale. Più incomprensibili dell’enigma matematico dei 7 ponti di Eulero (Leonard Euler, 1707-1783) sul fiume Pregel, che collegano due isole tra di loro e alla città. Eulero dimostrò l’impossibilità di attraversarli tutti in una volta sola, ma è impossibile che Putin riesca a dimostrare il pericolo revanscista lituano.