Disastro
Hollywood in crisi per Trump e gli incendi? Faccia meno politica
Deve avere un effetto apotropaico, per i registi, fare a brandelli la scritta “Hollywood”: è stata distrutta da un terremoto (Superman, 1978), centrata da un razzo difettoso (Le avventure di Rocketeer, 1991), manomessa da un gorilla (Il grande Joe, 1998), inghiottita da un tornado (The day after tomorrow, 2004). Per ora, ha funzionato: le lettere sono integre, le fiamme si sono avvicinate e ne hanno intaccato soltanto il colore, lasciandole meno candide, di una maglietta bianca ficcata in lavatrice con i neri. Divorata invece Sunset Boulevard, bruciate le ville dei vip tra Santa Monica e Malibu, minacciato il Dolby Theater, il Chinese Theater, la zona compresa tra Mulholland Drive e Hollywood Boulevard, la Walk of Fame, annullate le premiere, fermate le produzioni, posticipato l’annuncio delle nomination agli Oscar.
L’intera comunità di Hollywood, constatato il suo peso-piuma politico, aveva appena cominciato a riprendersi dalla vittoria di Donald Trump. Questa volta senza dare battaglia, al contrario del primo mandato quando portarono sui tappeti rossi il #MeToo e #BlackLivesMatter. Oggi vogliono solo tenersi stretti i soldi. Nel 2016 il botteghino mondiale raggiunse i 36 miliardi di dollari, da lì in avanti gli incassi sono crollati di oltre 10. La pandemia ha imposto la chiusura delle sale (non solo temporaneamente) e le produzioni si sono interrotte. Netflix, Prime, Disney, le piattaforme streaming hanno rivoluzionato il mercato. Nel 2023 gli scioperi di attori e sceneggiatori hanno bloccato le produzioni per mesi, con conseguenze su riprese e promozioni di film e serie tv. Tagli ai costi e ristrutturazioni hanno travolto studi come Paramount e Warner Bros. L’intera industria trema per l’utilizzo sempre più pervasivo dell’Intelligenza artificiale.
Figurarsi se ora, ora che è anche piegata dall’incendio più distruttivo della storia di Los Angeles, vuole correre il rischio di alienarsi la metà del Paese che ha votato repubblicano. Dopo anni passati a stilare liste di attori, produttori, operatori, tecnici audio appartenenti a categorie sottorappresentate (neri, donne, trans, nativi, affetti da disabilità) per rispettare le regole moralizzatrici dell’Academy, abbandonare il bizantinismo woke non sarà facile. Ma inimicarsi il futuro presidente sarebbe peggio: nel suo primo mandato, Trump ha ripetutamente cercato di tagliare i fondi federali del settore, la Corporation for Public Broadcasting e il National Endowment for the Arts. Inoltre, «è un uomo che parla esplicitamente di vendetta.
E Hollywood non è stata gentile con lui», ha detto Dean Devlin, produttore di blockbuster come Independence Day e Godzilla. Così, mentre alcuni dirigenti hanno evitato di fare donazioni durante la campagna elettorale per non inimicarsi una parte politica (vedi Bob Iger, amministratore delegato della Disney), altri si sono affrettati a congratularsi dopo il risultato (vedi Jeff Bezos), altri ancora si aspettano che l’amministrazione entrante favorisca trattative, accordi di fusione e acquisizione (vedi David Zaslav, AD di Warner Bros Discovery). Il punto di vista di Zaslav, ha riportato il Financial Times, è coerente con l’opinione dell’intero settore: senza fusioni, le aziende sono destinate a fallire. Il compito del nuovo presidente sarà aiutare la California (e d’altronde anche nella liberale Los Angeles, Trump ha conquistato il 5% di voti in più rispetto al 2020 e ha sconfitto Harris a Beverly Hills). Dopo la devastazione del fuoco, arriverà quella economica. La stima dei danni, tra abitazioni, turismo, industria cinematografica, ha raggiunto i 57 miliardi di dollari. E Hollywood - superata la crisi, come sempre fanno gli americani - dovrà tornare a svolgere il suo, di compito, ovvero intrattenere.
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