L'ultimo rischio

Giordania, il timore di una rivolta: le indiscrezioni dai vertici dei servizi di Tel Aviv

Mirko Molteni

A poche settimane dall’inizio del suo secondo mandato, il 20 gennaio 2025, il presidente americano, Donald Trump, ha telefonato ieri al premier israeliano Benjamin Netanyahu, consultandosi con lui sulla possibilità di negoziato con Hamas per la liberazione degli ostaggi ancora prigionieri nella Striscia di Gaza, nonché sul nuovo fronte caldo, la Siria, dove dopo la fine del regime di Bashar El Assad hanno preso il potere i jihadisti di Hayat Tharir Al Sham e milizie loro alleate.

Netanyahu ha rassicurato Trump sul fatto che «non abbiamo interesse a un conflitto con la Siria». Da giorni Israele ha mandato soldati e carri armati Merkava in territorio siriano, sull'altro versante della fascia di sicurezza del Golan e intende tenerveli per tutto l’inverno. Il premier ebraico ha ribadito al neo-presidente Usa che «le nostre azioni in Siria hanno il solo scopo di prevenire le potenziali minacce e il possibile arrivo di terroristi vicino al confine con Israele». Più tardi il governo di “Benji” ha approvato all’unanimità l’espansione degli insediamenti ebraici sulle alture del Golan, aiutata con stanziamenti da 10 milioni di euro.

 

 

 

Per Netanyahu «rafforzare il Golan significa rafforzare lo Stato di Israele, il che è vitale nelle circostanze attuali». Mentre nella Siria dei nuovi padroni si consolida l’influenza della Turchia, Israele guarda anche alla Giordania come possibile fonte di instabilità. È proprio su ispirazione dei rapidi rivolgimenti siriani che i servizi segreti ebraici temono che gli estremisti palestinesi presenti ad Amman e dintorni possano tramare un rovesciamento della monarchia hascemita, che da decenni assicura stabilità sul versante orientale del fiume Giordano. Fonti israeliane come la testata Walla e la televisione Kan hanno rivelato, da indiscrezioni di «tre ufficiali israeliani», che venerdì scorso ad Amman si sono recati in segreto i capi di due fra i maggiori servizi d'intelligence d’Israele.

Si trattava del direttore del servizio di sicurezza Shin Bet, Ronen Bar, e del nuovo capo del servizio segreto militare Aman, Shlomi Binder, che nell'aprile 2024 è subentrato ad Aharon Haliva, dimessosi dopo aver riconosciuto errori e negligenze nel prevenire i massacri del 7 ottobre 2023. I capi degli 007 israeliani, fra cui mancava all’appello solo il “memuneh”, “responsabile”, del Mossad, David Barnea, hanno parlato con ufficiali giordani, specie il capo dei servizi segreti Ahmad Husni. Al centro dei colloqui, la vigilanza per evitare in Giordania azioni eversive contro il re Abdullah II e le contromisure per impedire all’Iran di aumentare il contrabbando di armi che attraversa la Giordania verso la Cisgiordania andando a rinforzare Hamas, la Jihad Islamica e altri gruppi palestinesi. Per Israele la Giordania è importante come partner per aiutare a sorvegliare il suo fronte orientale, ossia la Cisgiordania.

L’utilità dell’amicizia di Amman è stata confermata anche dalla collaborazione delle difese aeree giordane nell'abbattimento di alcuni dei missili e droni che l'Iran ha sparato su Israele nei mesi scorsi. Due terzi della popolazione giordana sono di origine palestinese e in caso ipotetico di crollo del governo di Amman, Israele si troverebbe a fianco della Cisgiordania un vasto e popoloso “santuario” di miliziani palestinesi. La stabilità giordana è un problema ricorrente, se si pensa al “settembre nero” del 1970, quando il padre di Abdullah II, re Hussein, dopo complotti palestinesi per ucciderlo, attuò una repressione dei gruppi feddayn presenti sul suo territorio, costringendo Yasser Arafat e i suoi seguaci a spostare le loro sedi in Libano.

Frattanto, in Siria, oltre ai soldati russi, anche «parte del personale diplomatico di Mosca sta lasciando Damasco», come dicono fonti ufficiali. Proprio mentre il ministro degli Esteri britannico David Lammy ammette «contatti diplomatici» fra la Gran Bretagna e i jihadisti. Il loro capo Abu Al Julani “corteggia” i curdi, evidentemente per conto della Turchia, inneggiando a una “Siria unita” che però sembra un invito a rinunciare all’amministrazione autonoma che i curdi dell’Ypg, con appoggio americano, hanno instaurato nel Nordest del paese. Vestito da agnello, il nuovo padrone di Damasco dice: «I curdi fanno parte della patria. Sono stati sottoposti a grandi ingiustizie, come noi, e se Dio vuole, l’ingiustizia sarà eliminata. Nella prossima Siria, i curdi saranno fondamentali. Vivremo insieme e tutti otterranno i loro diritti per legge».

 

 

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I curdi, bersagliati negli ultimi giorni dai filoturchi del Free Syrian Army, alleato dell’Hts di Al Julani, e dall'aviazione turca, chiedono un cessate il fuoco e si sono ritirati a Kobane. Non si fidano di Damasco, nè di Ankara. Il ministro della Difesa turco, Yasar Guler ha ieri detto che «siamo pronti a fornire il nostro supporto militare e ad addestrare le truppe siriane se Damasco lo chiederà». E sulle milizie curde YPG ha minacciato: “O spariscono loro o le faremo sparire”.

 

 

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