Scontro finale
Bashar Assad, cosa succede in Siria dopo la sua fine
Il regime baatista si sbriciola sotto i colpi di una scalcagnata banda di terroristi perché non ha più l’ombrello dell’aviazione russa né la protezione di Iran ed Hezbollah, messi in ginocchio da Israele.
Quello che sta accadendo a Damsco e dintorni lo abbiamo per certi aspetti già visto in Afghanistan, dove la parte del Paese che aveva abbracciato, apparentemente con convinzione, la democrazia, si arrese ai talebani senza combattere, in seguito al ritiro americano ordinato da Biden.
Se dall’inferno, dove ha preferito andarsene per poter discutere di politica, Machiavelli seguisse gli eventi internazionali di oggi, non riuscirebbe a trattenere una smorfia di disprezzo per quei leader e partiti che si fanno difendere dagli stranieri e crollano appena l’appoggio esterno viene meno. Non è una questione di ideologia: nel caso afgano gli sconfitti erano democratici (almeno sedicenti tali), nel caso siriano si tratta, al contrario, di una tirannia di lungo corso, una di quelle dinastie dittatoriali peculiari del mondo contemporaneo, basti citare la Corea comunista dei Kim: nonno, babbo, figlio e, chissà, presto anche sorella.
Sembra davvero che in Medioriente ci sia soltanto lo Stato ebraico in grado di combattere una guerra moderna; altrimenti guerriglia e terrorismo hanno sempre la meglio sulle forze regolari. Lo si è visto anche nello Yemen dove le milizie di Ansar Allah, cioè gli Huthi, le hanno suonate agli eserciti ritenuti più agguerriti della regione, quelli degli Emirati e dell’Arabia Saudita. Persino Israele, quando usa tattiche non convenzionali contro i nemici terroristi, miete successi clamorosi. È un tema ricorrente nella pubblicistica sul mondo arabo e si rischia sempre di scadere nei pregiudizi. A maggio l’Economist pubblicò una lunga riflessione sull’inefficacia degli eserciti arabi e propose una serie di motivi: si tratta di Stati autoritari i cui leader guardano con sospetto a forze armate troppo efficienti, che potrebbero rivoltarsi loro contro. In secondo luogo, spesso quegli emiri e raìs spendono in mezzi militari appariscenti, meri status symbol, come caccia supersonici o missili a lunga gittata che non sempre sono efficaci in scontri asimmetrici. Infine, difficilmente gli eserciti di Stati alleati collaborano fra di loro. Esistono eccezioni, riconosce il settimanale londinese. E naturalmente tutto cioè non vale o vale molto meno per Turchia e Iran.
PROSPETTIVE
Che cosa ci dice questa debolezza militare degli Stati arabi sul futuro della Siria? Niente di buono. Abu Mohammed al-Jawlani, il capo di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), viene accreditato dai media occidentali come quello che ha detto no a Isis e ad al Qaeda. Un jihadista illuminato insomma. Ma, nonostante l’appoggio turco, è improbabile che l’Hts possa unificare il Paese (non ci è riuscito nemmeno Assad quando aveva l’aiuto russo-iraniano). Probabile invece la frammentazione ulteriore dello Stato in differenti aree: una controlata dalla Turchia, a nordovest, una dai suoi alleati Hts, al centro e al sud con Damasco, ma anche una regione curda, per tacere delle enclavi di Daesh e al-Qaeda, le basi americane e quelle russe.
Molto probabilmente stiamo assistendo non alla fine della guerra di Siria ma solo all’inizio di una nuova fase, più confusa anche per l’assenza di una forza militare statale in grado di controllare i terroristi vittoriosi.