L'antica corsa all'oro
Guerre, quando prima del petriolio si facevano per la noce moscata
Avete presente il cobalto, il minerale utilizzato per la produzione delle batterie che alimentano i nostri cellulari, tablet, computer e altre diavolerie consimili? O le cosiddette terre rare, elementi chimici fondamentali per la produzione di turbine eoliche e pannelli fotovoltaici?
Tutta roba imprescindibile per lo sviluppo tecnologico e la transizione energetica per accaparrarsi la quale è partita una corsa che, fino ad ora, vede la Cina in netto vantaggio sugli altri competitor. Ebbene forse non tutti sanno che, fra il Quattrocento e il Seicento, preziosa come il cobalto o una terra rara veniva considerata, assai più prosaicamente, la noce moscata. Il perché è presto detto.
In quell’Europa lì, l’Europa delle grandi scoperte geografiche, le spezie nella loro generalità venivano considerate talmente indispensabili da diventare oggetto del contendere, anche violento, tra le maggiori potenze marinare e coloniali.
PANACEA DI OGNI MALE
Fra di esse, la più ricercata era il seme della Myristica fragrans, la noce moscata appunto: una sorta di panacea universale secondo i medici del tempo capace di curare la dissenteria, la colite ulcerosa e la flautolenza, di risvegliare la virilità assopita o, al contrario, di placare lo smodato desiderio sessuale, e perfino di prevenire la malattia più temuta, la peste bubbonica.
Ma soprattutto essa era indispensabile al rallentamento della putrefazione delle carni e alla cancellazione con il suo profumo della puzza mefitica della carne in rovina. Di questa storia straordinaria è tornato a narrare Giles Milton, storico britannico, nell’avvincente libro L’isola della noce moscata (Nutrimento, 304 pagine, 20 euro. La prima edizione è del 1999).
Milton descrive in maniera dettagliatissima le lotte per la conquista del monopolio della noce moscata cui si diedero anima e corpo soprattutto inglesi, portoghesi e olandesi. Una baruffa terrificante, senza esclusione di colpi. Più ambita dell’oro, la noce moscata mosse i primi appetiti dei sudditi di sua maestà la regina d’Inghilterra. Ai quali fu tuttavia immediatamente chiaro che per appropriarsene in quantità considerevoli occorreva mettersi in nave e alla via così. Vaste programme siccome, a quei tempi, le cosiddette “isole delle spezie”, nell’attuale Indonesia, erano ai confini del mondo: pericolose e difficilmente raggiungibili. L’obiettivo, comunque, era quello di conquistare l’arcipelago delle isole Banda, nella zona delle Indie Orientali a circa seimila miglia dall’Australia.
Nel mirino dei contendenti fu subito messa Run, l’isola che a quei tempi affascinava più dell’Eldorado siccome avvolta da una densa foresta di alberi slanciati, che i botanici chiamavano, appunto, la myristica fragrans. I primi, tuttavia, a raggiungere la meta, correva l’anno 1511, furono i portoghesi. Afonso de Albunquerque, esploratore e militare, dopo aver conquistato Malacca in nome del suo re, fu il primo a individuare la posizione delle Isole Banda, non senza l’aiuto di navigatori malesi, reclutati a forza proprio per quello scopo.
DA RUN A MANHATTAN
I mercanti lusitani provarono a fare dell’isola una base per lo smistamento commerciale del prodotto. Peccato per loro che gli abitanti dell’isola non fossero della stessa idea. Ne sortirono violenti scontri con la popolazione locale, tali da costringere i portoghesi a scendere a patti con gli autoctoni concordando l’acquisto della noce moscata a Malacca, pur dovendo passare attraverso la mediazione malese. Ma a darsele di santa ragione per la conquista della preziosa spezie furono soprattutto inglesi e olandesi. Per dire, il mercante inglese Nathaniel Courthope riuscì a occupare Run e a difenderla per anni dall’assedio degli olandesi ma alla fine l’isola cadde comunque nelle mani dei tulipani. In cambio gli inglesi ottennero un’altra isola, quella di Manhattan.
Oltre al racconto dello scannatoio determinato dai vari appetiti coloniali, il libro di Milton narra di avventure erotiche, bizzarre, ignobili e crudeli di esploratori e pirati, coltivatori e mercanti, personaggi eccentrici e strampalati che cercarono di raggiungere e conquistare questa sorta di isola del tesoro. Alcuni di essi si persero fra i ghiacciai di una improbabile rotta polare; altri, come il capitano William Keeling al viaggio intercalarono lunghe soste per far rappresentare all’equipaggio opere di Shakespeare di fronte alle coste dell’Africa. Lo sguardo acuto e curioso dell’autore, sostanziato da un invidiabile estro narrativo, riesce a conferire toni salgariani a fatti comunque drammatici riempiendo l’immaginazione del lettore con i colori e i profumi conradiani della grande avventura nei mari del sud.