chiude l'ultimo museo
Se falce e martello esistono solo in Italia
Non sono pochi studiosi ad essere convinti, sulla scia di Ernst Nolte, che il “secolo breve” sia stato anche e soprattutto il “secolo rosso”. È il comunismo, nella sua versione bolscevica, ad avere dato il tono a tutto il Novecento, anche nell’Europa occidentale. A ben vedere anche i fascismi e il nazismo sono nati come reazione al bolscevismo, mutuandone fra l’altro non pochi tratti socialisteggianti. Chiunque si voglia perciò mettere alle spalle quel secolo di ferro e fuoco che di tante tragedie è stato teatro è col comunismo che deve fare i conti, sbarazzandosene, studiandolo e approfondendolo certamente ma relegandolo negli anfratti meno nobili della storia. Lo hanno capito anche in Finlandia ove a Tampere sta per chiudere i battenti l’ultimo Museo Lenin ancora presente in Occidente, aperto nel 1946 come clausola del trattato di pace imposto dai sovietici. Fu in questa città infatti che il fondatore del partito bolscevico, allora in esilio, incontrò per la prima volta nel 1905, nel corso di un congresso, il suo successore e erede alla guida dell’Unione Sovietica, cioè Stalin. Significative sono le motivazioni con cui il direttore del Museo, Kalle Kallio, ha spiegato ad una agenzia la chiusura del Museo. Esso era diventato, proprio per il nome che portava, “un peso”, considerato “un tempio del male”, lontano dalla storia “che si vuole trasmettere”.
Non a caso, ha notato sempre Kallio, le scolaresche si sono tenute lontane dal museo, che riaprirà a gennaio con un nuovo nome e si concentrerà sui rapporti storici fra Russia e Finlandia in generale. Chissà se Kallio è a conoscenza del fatto che in un Paese occidentale, ancora oggi, la storia del comunismo non solo non sia un “peso” ma venga rievocata con nostalgia da non poca parte del ceto intellettuale, opportunamente trasfigurata e riverniciata, anzi spesso modificata in un senso del tutto diverso da quello originario. Quel Paese si chiama Italia e, per fortuna, è abitato anche da tanti onesti cittadini che a certi intellettuali non danno troppo credito e del comunismo hanno il giusto concetto che si deve avere. Nel paese degli uomini di cultura smemorati può perciò accadere che Enrico Berlinguer, politico serio e rispettabilissimo ma coerentemente comunista fino all’ultimo dei suoi giorni, passi per un democratico o addirittura un atlantista. O può accadere che Antonio Gramsci, un acclarato gigante del pensiero, da cui indubbiamente tutti abbiamo da imparare, venga letto persino come un liberale (è successo anche questo).
Da un certo punto di vista, si può dire che nella sinistra intellettuale nostrana ci sia stato addirittura un arretramento rispetto a qualche decennio fa. Sarebbe oggi possibile quella revisione storiografica che vide partecipi agli inizi degli anni Novanta tanti studiosi volti a mostrare gli intrecci spesso profondi che legano nella storia d’Italia le culture politiche anche le più opposte? Sarebbe possibile quella riscoperta del pensiero negativo, cioè di autori conservatori o reazionari, che vide impegnata una parte consistente dell’intellettualità di sinistra a cavallo degli anni Settanta e Ottanta? La stessa recente ripubblicazione, da parte della Silvio Berlusconi Editore, di un capolavoro come Il passato di un’illusione di Francois Furet è stata accolta con una freddezza e un distacco imparagonabile al clamore, generatore di dibattiti, che suscitò la sua prima uscita. Al fondo agisce da noi quella distinzione fra un fascismo “cattivo”, “male assoluto”, e un comunismo che è un’idea “buona” ma mal realizzata. Tanto che si deve, giustamente, essere antifascisti, ma non è corretto dirsi anticomunisti. Che ciò dipenda dalla nostra storia (abbiamo avuto il più grosso partito comunista dell’Occidente e mai una socialdemocrazia vincente), o da altro, è argomento di dibattito e studio. Quel che conta nell’oggi è notare come rievocare il comunismo non qui di “peso”, come lo è in Finlandia e altrove nel mondo libero. E come ciò finisca per far essere la nostra ancora e sempre una democrazia imperfetta, basata sulla diffusa delegittimazione morale dell’avversario politico.