Primo ministro israeliano

Israele, la riscossa di Netanyahu: come ha ribaltato la guerra, la mossa decisiva

Fausto Carioti

Politicamente morto dopo il disastro del 7 ottobre, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è risorto nell’unico modo possibile: uccidendo i nemici di Israele dopo averli inseguiti ovunque, anche dove i suoi alleati americani ed europei gli intimavano di non farlo. Colpendo i vertici di Hamas, organizzatori del massacro, e gli altri terroristi sponsorizzati dall’Iran, come i capi di Hezbollah, sino a far fuori il più importante di loro, Hassan Nasrallah. Rispondendo colpo su colpo agli stessi ayatollah e gli altri loro mantenuti, come gli houthi dello Yemen, che hanno provato a trasformare il conflitto iniziato a Gaza in una grande «guerra dei sette fronti».

I sondaggi interni danno Netanyahu in risalita, il suo propellente è l’impegno militare contro Hezbollah, che i suoi connazionali apprezzano più di quello a Gaza. E l’uccisione di Nasrallah assieme a quella di Ali Karaki, comandante del “partito di Dio” sul fronte meridionale, completa la decapitazione dell’organizzazione e promette di sollevare ulteriormente le quotazioni del leader del Likud.

 

 

 

Sbaglia chi dice che questo è il metodo che Israele usa da sempre: è vero il contrario. Il copione visto tante volte a Gaza prevedeva una reazione israeliana in cui si distruggevano alcuni tunnel e qualche arsenale, si uccidevano (spesso a caro prezzo) miliziani ed esponenti di secondo piano di Hamas, lasciando intatta la cupola dell’organizzazione, che in pochi mesi era di nuovo in grado di colpire. Andò così anche nel 2021.

Dalla Striscia di Gaza erano partite migliaia di razzi contro le città di Tel Aviv, Ashkelon e Beersheba. Israele rispose lanciando l’operazione “Guardiani delle mura”, che durò undici giorni e si concluse il 21 maggio con un cessate il fuoco promosso dall’Egitto e benedetto dagli Stati Uniti. Hamas aveva conservato i mezzi e gli uomini per pianificare e portare a termine la mattanza del 7 ottobre.

Per questo l’operazione “Spade di ferro”, annunciata da Netanyahu il giorno della strage, ha seguito una filosofia tutta diversa. Coerente con gli obiettivi fissati all’inizio: liberare gli ostaggi e distruggere chi ha fatto del male a Israele, per impedire che possa farlo ancora. E siccome la liberazione di tutti i prigionieri non è mai stata presa in considerazione da Hamas, la caccia è stata condotta dal primo ministro israeliano senza alcuna deviazione né concessione, se non quando ha voluto dare più tempo ai civili palestinesi per evacuare.

 

 

 

Ha iniziato con il nord della Striscia e Gaza City, stretta d’assedio dal 2 novembre. Quando Nasrallah, il giorno seguente, avverte da Beirut che «la possibilità di una guerra totale è concreta», Netanyahu avverte lui e gli altri capi di Hezbollah di non provarci: «Non potete immaginare quanto vi costerà». Lo avrebbero capito mesi dopo, nel modo più duro. L’8 novembre l’esercito fa sapere di avere il controllo del nord della Striscia: in passato magari sarebbe finita lì, stavolta è diverso. A dicembre l’attenzione di Israele si sposta verso sud, in direzione Khan Yunis: è la città natale di Sinwar ed una roccaforte di Hamas. Sarà martellata per mesi dai bombardamenti. E col nuovo anno iniziano le uccisioni dei pezzi grossi: il 2 gennaio Saleh Arouri, il vice-capo dell’ufficio politico di Hamas, muore in un’esplosione a Beirut. Nemmeno a Rafah, al confine con l’Egitto, gli uomini di Hamas saranno al sicuro: Israele fa sapere che senza rilascio degli ostaggi l’esercito li inseguirà anche lì. Nonostante gli Stati Uniti e tutti i Paesi europei chiedano a Netanyahu di non farlo, il 6 maggio i carri armati israeliani entrano a Rafah e prendono il controllo del valico.

Intanto il governo israeliano ha dimostrato al mondo di non essere solo. Il 14 aprile l’Iran lancia per la prima volta un pesante attacco al territorio d’Israele con droni e missili, alla cui contraerea collaborano i caccia degli Stati Uniti e altri Paesi alleati, tra cui alcuni Stati arabi. La ritorsione di Israele contro l’Iran è molto calibrata. Sarà assai più pesante a luglio: il giorno 19 gli houthi lanciano droni contro Israele, uno buca le sue difese e colpisce un edificio a Tel Aviv. Poche ore dopo, venti aerei da combattimento con la stella di David radono al suolo le infrastrutture petrolifere degli houthi nel porto di Hodeida, sulla costa orientale dello Yemen: il centro nevralgico del loro contrabbando, distante oltre 1.700 chilometri da Israele.

Il 12 settembre l’esercito israeliano annuncia che «la brigata di Rafah è stata sconfitta». La priorità ora sono le eliminazioni mirate. È una sequenza impressionante, che dimostra la superiorità del Mossad nella raccolta d’informazioni e nell’uso della tecnologia. Il 30 luglio Israele uccide alla periferia di Beirut il comandante di Hezbollah Fuad Shukr, il cui nome appare nell’elenco dei terroristi globali stilato dagli Stati Uniti. Il giorno dopo è il turno di Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, ammazzato a Teheran, forse da una bomba collocata nella sua residenza mesi prima.

Il 17 e 18 settembre sono i giorni delle evirazioni di massa: esplodono i cercapersone e i walkie-talkie nelle tasche e nelle mani degli uomini di Hezbollah; oltre trenta sono uccisi, più di tremila feriti. I raid aerei israeliani colpiscono Ibrahim Aqil, numero due e capo armato di Hezbollah, e poi Nasrallah e Karaki, colti assieme ad altri leader dell’organizzazione. Del capo di Hamas Yahya Sinwar, intanto, si sono perse le tracce: forse è vivo, forse no.

Sinwar è l’ultimo capo terrorista rimasto. Più in alto di lui ci sono solo la “guida suprema” Ali Khamenei e gli altri leader iraniani. Sono loro dietro a quella che Netanyahu chiama «la guerra dei sette fronti»: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Yemen e – ovviamente – Iran. Dal palazzo di vetro dell’Onu, il primo ministro di Israele avverte «i tiranni» di Teheran: «Non c’è luogo - nemmeno in Iran- dove il lungo braccio di Israele non possa arrivare». Haniyeh e gli altri nemici di Israele uccisi in territorio iraniano sono lì a ricordarlo.

 

 

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