La dichiarazione del 1945

Italia-Giappone, la guerra dimenticata dai libri

Marco Patricelli

La notizia era stata sparata in prima pagina su tutti i quotidiani italiani il 15 luglio 1945, ma non è praticamente mai riportata sui libri di storia. La seconda guerra mondiale in Europa era terminata da un paio di mesi e il primo atto importante di politica internazionale della nuova Italia lacerata da due anni di guerra civile consisteva nella dichiarazione di guerra al Giappone ex alleato dell’Asse.

Un atto fortemente voluto dal governo di Ferruccio Parri (vice Pietro Nenni), votato all’unanimità dal consiglio dei ministri giovedì 12 luglio, quando il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi aveva comunicato una nota del sottosegretario americano Joseph Clark Grew secondo la quale «la dichiarazione di guerra sarà accolta con soddisfazione in America; i governi britannico e sovietico non fanno obiezioni». In realtà Londra era scettica e infastidita, Mosca contraria. Stalin, per attaccare il Giappone, avrebbe atteso lo scoppio della prima bomba atomica su Hiroshima e la vigilia di quella su Nagasaki, l’8 agosto.

 

 

 

Ma in quell’estate del 1945 solo pochissimi sapevano della segretissima super arma nucleare e gli strateghi statunitensi avevano preventivato perdite altissime con lo sbarco in Giappone. Nenni ha lasciato scritto: «De Gasperi ha proclamato che l’ora è venuta. (...) Ma dove se ne va la democrazia quando un governo proclama una guerra, sia pure simbolica, per piacere a un governo straniero? In verità non è la politica di De Gasperi che ha trionfato, ma quella dell’ambasciatore Tarchiani», che operava su suo incarico. Era stato lui, profondo conoscitore della realtà americana e antifascista della prima ora, l’artefice di questa mossa politico-militare, d’intesa con Grew.

L’iniziativa italiana rispondeva all’esigenza di Washington di rafforzare la flotta d’invasione con le navi da battaglia della Regia Marina e magari con la fanteria da sbarco.
Per l’Italia era un modo di affermare la rottura col fascismo e guadagnarsi così un biglietto di ritorno tra le democrazie e uno di ingresso tra le Nazioni Unite, attenuando le condizioni di pace le cui linee direttive erano contenute nella resa incondizionata sottoscritta il 3 settembre 1943 a Cassibile. Una mossa in linea di continuità con la rocambolesca dichiarazione di guerra al Terzo Reich del 13 ottobre 1943, inoltrata diplomaticamente attraverso l’ambasciata a Madrid: un atto, ha sostenuto Pietro Pastorelli con tesi ampiamente condivisibile, che non aveva la legittimità giuridica del diritto internazionale.

Col Giappone ogni legame era stato reciso con la proclamazione della resa dell’8 settembre: la concessione di Tientsin in Cina, risalente all’epoca della Guerra dei boxer nel 1901, era stata immediatamente occupata dall’esercito imperiale, il personale diplomatico subito internato, contrariamente alle convenzioni internazionali, e quello militare rinchiuso in campi di concentramento. Tokyo, inoltre, aveva riconosciuto la Repubblica sociale di Mussolini. La dichiarazione di guerra stavolta era passata attraverso la neutrale Svezia. Roma aveva inoltrato un telegramma alle 13.30 del 13 luglio alla Regia legazione italiana di Stoccolma: «In seguito all’unanime deliberazione del Governo nazionale di affermare contro il regime d’aggressione nipponico quella stessa solidarietà colle Nazioni Unite, e in particolare cogli Stati Uniti d’America e colla Cina, che venne attuata dal popolo italiano contro l’aggressore tedesco, S.A.R. il Luogotenente del Regno dichiara che l’Italia si considera in stato di guerra col Giappone a partire dal giorno 15 luglio».

De Gasperi raccomandava la massima segretezza. Il telegramma era stato tradotto in francese per il Ministero degli esteri di Svezia e il 14 inoltrato in cifra alla legazione svedese a Tokyo e notificato alla legazione imperiale giapponese a Stoccolma. Non conosciamo la reazione giapponese alla dichiarazione di guerra, ma attraverso l’Agenzia Reuters sappiamo che l’Italia aveva compiuto tale passo svincolandolo dal riconoscimento formale dello status di alleato, al quale ambiva già dai tempi della guerra alla Germania come cobelligerante.

L’analisi è puntuale: «La Dichiarazione mette la flotta italiana a disposizione degli Alleati e si sono altresì citati piani di reclutamento di aviatori e truppe terrestri volontarie. (...) Se l’assistenza delle navi da guerra italiane nei combattimenti in corso sarà ora accettata (...) la Marina italiana sembra pronta a combattere con entusiasmo se questo può aiutare a migliorare la posizione internazionale dell’Italia».

La finalità politica risulta da un lungo telegramma inviato da De Gasperi all’ambasciatore a Washington Tarchiani alle 17 del 13 luglio, dove si richiama l’impegno del Dipartimento di Stato USA ad «alleggerire le condizioni della pace italiana, in esplicito controcanto rispetto alle assai più dure posizioni britanniche e sovietiche; altrettanto importante appare l’auspicio per un trattato di pace anche incompleto, che consentisse tuttavia agli italiani di essere subito internazionalmente riabilitati». L’invio di unità della Regia Marina nel Pacifico in piena operatività richiedeva dai due mesi per gli incrociatori leggeri a un anno per le grandi navi da battaglia.

Gli equipaggi erano invece già pronti. La «nuova Italia democratica», come l’aveva definita Parri il 15 luglio con una lettera al presidente Harry S. Truman, due giorni dopo sarebbe stata sotto l’attenzione della Conferenza interalleata a Potsdam in riferimento alla perdita delle colonie, alla linea di frontiera su Venezia-Giulia e Dalmazia, e a Trieste nelle mire jugoslave, come poi sancito a Parigi nel 1947 dove fu chiaro che l’Italia la guerra l’aveva persa e non l’aveva neppure pareggiata. Venne infatti trattata da Paese sconfitto e il nobile discorso di De Gasperi trasuda consapevolezza, amarezza e impotenza. La riprova è pure nel Trattato di pace di San Francisco dell’8 settembre 1951 firmato dal Giappone. L’Italia, pur entrata in guerra il 15 luglio 1945, non era annoverata tra i 49 Paesi vincitori.