Conflitti

Guerre, la difficoltà di arrivare a una pace "giusta"

Marco Patricelli

La pace si fa con il nemico e le condizioni le detta chi vince. Poi si tratta attorno a un tavolo e la diplomazia si gioca tutte le carte del compromesso: quelle scoperte e quelle coperte. Da che mondo e mondo i conflitti finiscono così, passando sotto le forche caudine dell’accordo più o meno imposto e ammorbidito nelle clausole.

Lo insegna la storia, che non sarà la maestra di vita che pretendeva Cicerone, ma neppure è una viandante distratta che dice quel che le viene in mente. Chi pensa che i due fronti caldi di guerra in Europa e in Medio oriente possano chiudersi in altro modo, si accomodi e spieghi come. La pace giusta, infatti, è una pia illusione, perché è illusione poter contemplare nello stesso trattato tutte le rivendicazioni delle controparti, che altrimenti in guerra non ci sarebbero finite e avrebbero trovato un’intesa negoziale. La pace, se non imposta, può essere di compromesso, e quindi ognuno deve essere disposto a rinunciare a qualcosa; ma chi ha vinto o sta vincendo può permettersi di irrigidirsi sulle sue posizioni, soprattutto se controlla il territorio. Il possesso, è sempre la storia a dirlo, vale nove decimi del diritto, il resto si vedrà.

La Giustizia ha la bilancia in mano e i due piatti si equivalgono, ma quella è la posizione di partenza. La posizione d’arrivo è determinata dai rapporti di forza del campo di battaglia, dal valore sul piano economico delle risorse e dalla popolazione che sostiene lo sforzo bellico nelle fabbriche, nei campi e sul campo di battaglia. Anche numericamente, perché il numero è potenza persino nell’era dei computer, dei droni e dei missili. Spesso vale la legge di Natura, dove quasi sempre vince il più forte, e quando non è il più forte e il più intelligente.

La Francia napoleonica messa alla stanga dalle coalizioni europee che a Waterloo nel 1815 si sbarazzarono per sempre dell’imperatore còrso e del suo sistema di potere, grazie all’abilità di Talleyrand riuscì a negoziare, a smussare, a eludere, a sgusciare dalla trappola delle Potenze che volevano ingabbiarla e a tornare potenza a sua volta mentre il vecchio mondo si cullava sulla Santa alleanza e sulla restaurazione. Napoleone e i suoi eserciti erano stati battuti male idee della rivoluzione francese esportata sulle baionette dell’Armée francese no.

LE LEZIONI DELLA STORIA
La pace si fa con il nemico. Vale per la guerra russo-ucraina, vale per il turbolento scenario mediorientale con Israele, Iran, Libano, Hamas, Houthi, Ezbollah. Cercando di imparare dagli errori anche marchiani del passato. La fine della prima guerra mondiale era avvenuta paradossalmente con l’esercito tedesco fuori dai confini nazionali, per il crollo del fronte interno. La Francia e la Gran Bretagna, con l’Italia come comparsa, a Versailles decisero non solo di punire la Germania ma le imposero condizioni talmente pesanti da umiliarla. La firma sul trattato venne strappata all’ultimo momento utile, divenne un diktat e i tedeschi covarono rancore e spirito di vendetta. Sulla scena internazionale arrivò un caporale austriaco con i baffetti, Adolf Hitler, che fece da catalizzatore alla determinazione tutta teutonica di strappare il trattato e cancellare dalla cartina geografica gli Stati nelle cui frontiere erano ricaduti territori tedeschi. Li chiamarono i «bastardi di Versailles» e caddero uno dopo l’altro.

La prima vittima fu la Cecoslovacchia nel 1938, caso emblematico della pace senza guerra, cercata a tutti i costi proprio per scongiurarla, persino a prezzo dell’onore. Hitler non voleva affatto una conferenza di pace, quella di Monaco, ma si piegò al calcolo politico di ricevere su un vassoio d’argento quello che voleva con l’avallo diplomatico di Francia, Gran Bretagna e Italia. Tutto deciso a tavolino, e guarda caso la Cecoslovacchia non venne neppure invitata al tavolo delle trattative sulla sua pelle. Dovette ingoiare la cessione dei Sudeti e la spaccatura in due entità: una breve tregua prima dell’invasione di marzo 1939 e la fine dell’indipendenza. In Europa nel settembre 1938 si era festeggiato per aver scongiurato la guerra, rinviata di nemmeno un anno e destinata a essere mondiale.
Dopo 60 milioni di morti la pace imposta a quel che restava del Reich fu dura, e non poteva essere altrimenti considerati gli sfracelli che il nazismo aveva provocato, ma alla Germania occidentale fu tesa la mano per rialzarsi. Lo stesso avvenne con l’Italia. Forse qualcosa era stato imparato. Ma in ambedue i casi, che diventano tre con il Giappone, gli Alleati avevano debellato le potenze dell’Asse: le avevano cioè sconfitte irreparabilmente, e se compromesso c’era stato riguardava la prima nazione a cedere e ad arrendersi, ovvero l’Italia, per salvare il salvabile, che era poco ma meglio di niente e della spartizione come toccato alla Germania.

Oggi l’offensiva a sorpresa dell’Ucraina su territorio russo non è una svolta nella guerra ma una forzatura a spingere verso la trattativa con una posizione militare meno sfavorevole, da battuti ma non troppo. Diverso il discorso su Gaza e sui protettorati iraniani dei miliziani islamici anti Israele. Due nazioni e due territori sono uno slogan, inaccettato da parte del mondo arabo (e persiano) e aborrito da Hamas che già nelle scuole indottrina in tal senso i bambini allevandoli a odiare Israele e a cancellarlo dalla cartina geografica.
Ma la pace si fa con il nemico.

Già i romani, che di queste cose se ne intendevano e in qualche modo sono i padri del diritto internazionale, distinguevano nettamente due tipi di trattati: ifoedera aequa e i foedera iniqua. Tutto contenuto nel nome. Nel primo caso si concedeva un livellamento di diritti e doveri, nel secondo si imponevano le condizioni. Dopo la debellatio non esiste margine di trattativa, perché quello è il punto di non ritorno, e vale solo la generosità eventuale del vincitore. Persino l’imbattibile Sansone andò incontro al suo destino uccidendo in un sol colpo più persone di quante ne aveva uccise in tutta la sua vita morendo con esse. Accadde a Gaza, molti secoli fa.