Presidente russo

Vladimir Putin accusa gli Usa per l'attacco in Crimea: le ragioni della mossa

Marco Patricelli

Non c’è Lev Tolstoj a raccontare l’assedio, e neppure Mikhail Lermontov a versare le lacrime in versi. La letteratura e la poesia non abitano nella Sebastopoli di oggi, stretta nella morsa del conflitto tra Russia e Ucraina, ma il dolore è uguale a quello dell’Ottocento, del Novecento, di sempre. Tre bambini sono stati falciati da una pioggia di schegge sulla spiaggia della città della Crimea occupata e annessa dai russi da febbraio 2014. La morte è arrivata dal cielo, annunciata dal sibilo sinistro di un attacco missilistico. Dissolta la polvere delle esplosioni, cinque persone non si sono rialzate da terra, mentre le urla dei feriti venivano contrappuntate dalle sirene delle ambulanze che hanno portato in ospedale oltre un centinaio di persone; tre bambini sono ricoverati nel reparto di terapia intensiva. I numeri non sono statistica, come pretendeva Stalin, che aveva fatto di Sebastopoli una fortezza nel 1941-1942 per frenare la spinta della Wehrmacht. Non ci riuscì e in nove mesi di scontri aspri «per la vita e per la morte» perse oltre centomila uomini.

Russi e ucraini combattevano dalla stessa parte, come nel 1854-1855, quando anche il piccolo Piemonte per sensibilizzare le potenze europee sulla questione italiana inviò un contingente in Crimea al fianco di inglesi, francesi e turchi per frenare l’espansionismo zarista, e le perdite di ambedue gli schieramenti ammontarono a duecentomila soldati decimati anche dal colera. Alfred Tennyson rese immortale con i suoi versi la folle e inutile carica dei 600 cavalleggeri inglesi a Balaklava. Anche oggi si combatte «per la vita e per la morte», ma anche per dimostrare il principio che la legge del più forte non è assoluta e che la storia non possono scriverla solo i vincitori. Il nodo gordiano è che nessuno sa come far terminare l’operazione militare speciale trasformata in guerra d’attrito. La fine delle ostilità può essere sì di compromesso, ma sulla bilancia, dai tempi di Brenno, la spada pesa e decide quale piatto va giù e quale si solleva.

 

 

 

La Crimea russificata era stata donata nel 1954 da Nikita Chruscev all’Ucraina di cui era nativo, secondo la prassi sovietica e stalinista di spostare i confini interni a piacimento o a capriccio, e persino cambiarne la composizione etnica con le deportazioni di massa delle popolazioni. Lo zar postsovietico Vladimir Putin ha riportato indietro le lancette della storia, non potendo riportare l’intera Ucraina nei confini dell’impero.

L’arrivo di moderne armi occidentali che consentono di allargare il raggio d’azione fino in territorio russo e di eludere i sistemi di contraerea ha aumentato il rischio di coinvolgimento di civili nel tentativo di raggiungere obiettivi strategici. Le immagini che raggiungono il mondo tramite le tv e le infinite maglie della rete smuovono l’opinione pubblica anche se non sempre le coscienze, soprattutto di coloro che la guerra la vogliono e la fanno. Perché, senza ipocrisie, le armi intelligenti non esistono: rispondono alle leggi della fisica e agli impulsi dei razionalissimi microchip, non alle ragioni della mente e del cuore. La strage di Sebastopoli sta a ricordarci come vanno le cose. Ci saranno le scuse per l’errore e per i «danni collaterali», eufemismo per definire le morti di innocenti, perché anche questo fa parte della liturgia mediatica. Nessuno è più innocente di un bambino che non ha avuto né il tempo di accorgersi di cosa stesse accadendo né perché.

 

 

 

Gli adulti, invece, possono capire e non devono necessariamente accettare. Ma nessuno nelle stanze dei bottoni della politica e della diplomazia internazionali sa individuare una soluzione diversa dalla resa o dalla debellatio, come i ruoli e gli eventi sembrano indicare. Il generale francese Pierre Bosquet, osservando dall’alto la carica di Balaklava il 25 ottobre 1854 e i varchi aperti tra lancieri, ussari e dragoni della brigata leggera inglese di James Cardigan dall’artiglieria russa, pronunciò una frase entrata nella storia: «C’est magnifique, mais ce n’est pas la guerre». Chi ha visto i corpi martoriati dall’attacco missilistico ucraino non ha trovato nulla di magnifico, ma non ha potuto fare a meno di pensare che no, questa non è davvero guerra.

 

 

Il tuo browser non supporta il tag iframe