Corsa alla Casa Bianca

Donald Trump, la sentenza: condannato a vincere, la raccolta fondi vola

Marco Patricelli

Da Stormy Daniels allo Stormy Day. Dalla tempesta giudiziaria scatenata dai 130.000 dollari in pagamento del silenzio della pornostar alla tempesta perfetta che ha portato finora ben 70 milioni per pagare la campagna elettorale e spingere verso il bis Donald Trump, dopo la parentesi di Joe Biden. Se valessero i numeri asettici delle leggi matematiche e non anche quelle penali e della morale, per il tycoon la condanna sullo scandalo sessuale è un riuscitissimo capolavoro mediatico e finanziario. Sono infatti cifre da far impallidire anche un Paese come gli Stati Uniti dove il richiamo del dollaro mette sugli attenti anche quando nelle crepe della società si insinua il mai sopito puritanesimo a stelle e strisce, capace di distruggere o accartocciare carriere a tutti i livelli, con un peso diverso dall’Italia. I 34 "guilty", colpevole, scanditi in mondovisione come colpi di martello dalla Corte per altrettanti capi d’accusa, dovevano essere altrettanti chiodi sulla bara politica delle velleità di Trump di riconquistare la Casa Bianca e scalzare l’imbarazzante Biden, e invece si sono trasformati in un volano e un moltiplicatore di consensi per il disinvolto miliardario che proclama a spada tratta la sua innocenza e sostiene di essere al centro di una preordinata caccia all’uomo finalizzata a sbarrargli la strada.

Gli Usa non sono nuovi a storie e storielle pruriginose con protagonista l’uomo della valigetta atomica e del telefono rosso, colto in fallo come un borghese qualsiasi che non sa resistere ai richiami ancestrali della bellezza, della disponibilità e della trasgressione, ma anche dell’esercizio del potere in tutte le sue inquietanti varianti. John Kennedy ha legato il suo nome a Marilyn Monroe, non andò sotto processo ma le ombre e i misteri su quella relazione sono arrivati ai giorni nostri con un carico infinito di speculazioni. In tempi più recenti Bill Clinton sudò freddo per il fazzoletto tirato fuori dal congelatore da Monika Lewinsky dopo un incontro “improprio” nella Sala ovale di Washington subito malignamente ribattezzata “Sala orale”. Per Trump non c’è stata una star di primo piano di Hollywood entrata nell’immaginario collettivo ma una banale pornostar che non entrerà certamente nel mito come Marilyn, pur avendo trovato fama e celebrità fuori dai circuiti del web per una notte tacitata con 130.000 dollari che, secondo la ricostruzione dell’accusa, Trump avrebbe però racimolato nelle pieghe dei documenti contabili della sua holding. Una prestazione professionale che prevedeva come clausola perentoria il silenzio, ma poi il mondo ha visto una pudica Stormy Daniels in inediti atteggiamenti da educanda rilasciare dichiarazioni con toni vellutati ai microfoni davanti all’aula di giustizia, accolte dalla stampa schierata come le rivelazioni sui segreti dai Fatima.

 

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Quello che i democratici pensavano, ovvero di aver acconciato per sempre la chioma pannocchiata di Trump con 34 ben assestati colpi di spazzola giudiziaria, si è rivelata essere una lozione sbagliata dagli effetti devastanti per lo schieramento che intende dare continuità al mandato alla Casa Bianca. La campagna di donazioni al miliardario avviata l’indomani della condanna è sfuggita di mano persino agli organizzatori che sono stati travolti dalle adesioni, con un crescendo che ha portato finora alla cifra-monstre di 70 milioni. L’aspetto che va considerato, inoltre, è che in un Paese in cui l’esercizio del diritto-dovere di voto non è notoriamente in cima ai pensieri dei cittadini americani, l’allargamento alla base della platea di donatori-elettori mette le ali ai repubblicani ben oltre gli stereotipi delle carissime cene di finanziamento delle élite e dell’endorsement delle personalità del cinema, della musica e della cultura. Il tintinnio argentino dei dollari finiti a pioggia nel megasalvadanaio trumpiano ha il lugubre suono del bronzo nei comitati democratici, dove forse con troppo ottimismo si pensava di aver tirato il colpo di grazia al tycoon. La caccia al cinghiale, in fin dei conti, non solo non l’ha abbattuto ma addirittura non l’ha neppure sfiancato.

Lo scandalo sessuale, come in un’Italia qualsiasi, e l’intervento della magistratura nel mezzo della campagna elettorale, come in un’Italia qualsiasi, hanno tralasciato di considerare una variabile indipendente che adesso rischia di scompaginare considerazioni, strategie e risultati. Trump, nonostante i guai, gongola perché mette sul piatto della bilancia non solo danaro contante che è benzina per il motore degli Stati Uniti in tutte le possibili declinazioni, ma anche una manifestazione di consenso popolare che crede alla sua insistita dichiarazione di innocenza o che, in fondo, si disinteressa delle sue perfomances erotiche a pagamento, peraltro abbastanza lontane nel tempo, materia prima per le chiacchiere da bar e per gli ammiccamenti. Nell’Italia qualsiasi Silvio Berlusconi venne spiato, monitorato e intercettato attraverso il buco della serratura, in uno slalom avventuroso tra la politica e la morale e tra l’azione giudiziaria e l’azione pregiudiziale, eppure l’uomo di Arcore seppe rialzarsi più volte dal tiro al bersaglio di quella caccia grossa.

Trump in galera non ci andrà mai per aver pagato una pornostar, i piccoli donatori americani soffiano forte sulle vele repubblicane e lo staff dei consiglieri è al lavoro per ridisegnare profilo e contorni della campagna. In America essere ricchi non è peccato mortale, e te lo perdonano facilmente. Tutto si vende e tutto si compra negli Usa del “business is business”. Ma tutto è diverso rispetto all’Italia dove, come scrisse sagacemente Ennio Flaiano, anche all’inferno con i diavoli prima o poi ci si mette d’accordo.