Il caso internazionale

Il caso Assange zittisce chi dice che gli Usa trattano i dissidenti come la Russia di Putin

Mauro Zanon

Se ne faranno un ragione gli indignados che hanno osato paragonare la figura di Aleksei Navalny, attivista e dissidente che ha pagato con la propria vita la sua lotta contro un autocrate, avvelenatore e calpestatore di libertà come il presidente russo Vladimir Putin, e Julian Assange, giornalista e programmatore australiano considerato un “eroe” dagli anti-americanisti di ogni latitudine per aver diffuso materiali sensibili sulla sicurezza nazionale degli Usa in guerra a Kabul e a Falluja, mettendo in gioco la vita di agenti e informatori impegnati in missioni rischiose. Lunedì, l’Alta Corte di Giustizia di Londra ha concesso al fondatore di WikiLeaks un nuovo appello contro la sua estradizione negli Stati Uniti, che vogliono processarlo per la violazione del National Espionage Act, la legge nazionale sullo spionaggio. Una sentenza che mette ancora una volta a tacere i professionisti del vittimismo che hanno trasformato Assange in un martire della libertà d’informazione, accusando la giustizia britannica di aver azionato una «macchina repressiva» contro di lui.

«È una rara buona notizia per Julian Assange e per tutti coloro che difendono la libertà di stampa», ha concesso il consulente legale di Amnesty International, Simon Crowther. Alla fine di marzo, dopo una serie di colpi di scena giudiziari, due giudici dell’Alta Corte londinese, Victoria Sharp e Jeremy Johnson, avevano chiesto agli Stati Uniti nuove garanzie sul trattamento che Assange avrebbe ricevuto oltreoceano, prima di pronunciarsi sulla richiesta del fondatore di WikiLeaks di un nuovo ricorso. I giudici vogliono assicurarsi che Assange non rischierà la pena di morte e che, in caso di estradizione, godrà della protezione del Primo emendamento della Costituzione statunitense, che tutela la libertà di espressione. I pubblici ministeri americani sostengono che Assange abbia incoraggiato e aiutato l’analista dell’intelligence dell’esercito americano Chelsea Manning a rubare dispacci diplomatici e file militari pubblicati da WikiLeaks, mettendo a rischio vite umane.

 

700MILA DOCUMENTI
Sul fondatore di WikiLeaks, che ha diffuso a partire dal 2010 oltre 700mila documenti riservati degli Stati Uniti, in particolare in Afghanistan e Iraq, pendono diciotto capi di imputazione. E la condanna può arrivare fino a 175 anni di carcere negli Stati Uniti. Il giornalista e programmatore australiano è attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. Le autorità britanniche lo hanno arrestato nel 2019, quando si trovava nell’ambasciata dell’Ecuador, dove ha goduto per sette anni dell’immunità diplomatica. Assange non era presente in aula al momento della sentenza “per motivi di salute”, come ha spiegato il capo del collegio dei difensori, Edward Fitzgerald. Alla notizia del “sì” a un nuovo ricorso, la folla che si era radunata all’esterno del tribunale londinese per manifestare con cartelli e striscioni «Free Assange now» la sua contrarietà all’estradizione è scoppiata in urla di gioia.

 

COME NAVALNY?
Lo scorso febbraio, Stella Assange, moglie di Julian, disse che «ciò che è successo ad Alexsei Navalny in Russia potrebbe succedere a lui in America», che erano entrambi «prigionieri politici» oggetto di una «persecuzione». A marzo, Stella era al dipartimento di Economia dell’Università di Perugia per ritirare per conto del marito il premio Caffè, istituito nel ricordo del professor Federico Caffè. Fu un altro pretesto per sparare a zero contro Londra, l’Europa, l’Occidente. «Julian se non verrà salvato rischia di finire come Navalny. Entrambi sono prigionieri politici e per questo ho anche criticato Ursula von der Leyen che ha difeso solo Navalny. In questi anni sono stata spaventata per la vita di Julian, c’erano dei segnali che mi hanno fatto temere per lui». Ma la sentenza di lunedì è l’ennesimo schiaffo a chi, come lei, confonde regime, dove lo stato di diritto e le libertà individuali non sono garantite, e democrazia, che significa riservare un trattamento equo anche ai nemici della democrazia.