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Cambridge si piega ai censori della parola: vietato dire "anglosassone"

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Andrea Tempestini
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Immolare la propria identità sull’altare della cancel-culture in ossequio al wokismo più estremo, esasperato, talebano. L’ultimo capitolo di una deriva culturale viene scritto da un tempio del sapere, l’Università di Cambridge, che mette al bando la parola «anglosassone». E lo fa cancellando con disinvoltura un pezzo della propria storia: la rivista dell’ateneo (la prima copia risale al 1972), Anglo-Saxon England Journal, cambia nome in Early Medieval England and its Neighbours (Inghilterra Alto-Medievale e i suoi vicini).

Ce la spacciano come una scelta epocale, eppure sembrano quasi vergognarsene. Perché ufficialmente Cambridge spiega che con il cambio di testata si vuole avere «un approccio più ampio», «un raggio interdisciplinare e una natura internazionale» (il giornale di tutti, mica solo degli anglosassoni!). Ma ufficiosamente - il dibattito tiene banco da tempo tra gli integralisti del progressismo british - emerge che il problema sta nella parola «anglosassone» in sé.

Già, perché negli Usa il termine anglo-saxon è stato adottato con sfumatura razzista dai suprematisti, che lo usano per indicare esclusivamente i bianchi di origine britannica. Dunque: Cambridge cancella la parola anglosassone perché storpiata nel suo significato da un gruppuscolo di estremisti. L’idea di difendere il termine e la propria identità, rivendicandone il significato estensivo, non viene neppure presa in considerazione.

SEGNALI DI DEBOLEZZA
L’ennesimo inquietante segnale di debolezza, perfettamente inquadrato come tale da Dominic Sandbrook, autore e storico che interpellato dal Telegraph accusa Cambridge di «non opporsi a una manciata di pazzi americani». Come Sandbrook la pensano in tanti: nel Regno Unito si è sollevato un meritorio coro di critiche. Anche a Cambridge c’è chi dissente, come David Abulafia, professore emerito di Storia: «La rivista dovrebbe esaltare la sua illustre reputazione piuttosto che reinventarsi con un nuovo nome blando, figlio di una moda passeggera». Sempre Abulafia ricorda come anglo-saxon «non è un'etichetta razziale, ma culturale. Una cultura fiorita in una miriade di modi e, nell’XI secolo, con pochi rivali nell’Europa settentrionale». Ma nei giorni del furore autodistruttivo della cancel-culture questa eredità, letteraria e artistica, si preferisce nasconderla.

AUTOGOL STORICO
Un deragliamento che non tiene conto neppure delle origini della parola «anglosassone», che semmai dovrebbe essere elevata da lorsignori a simbolo di inclusione: era la fine dell’Impero d’Occidente, le tribù germaniche di Angli, Sassoni e Juti, insieme a olandesi e danesi, invasero le isole britanniche e si mescolarono con la popolazione celtico-romana. Un melting-pot ante litteram da cui fiorì il termine anglo-saxon. Tutto l’opposto rispetto al suprematismo.

La battaglia anti-identitaria, come detto, covava da tempo. Nel 2023 un gruppo di studenti di Cambridge denunciò come l’ateneo sostenesse che «gli anglosassoni non esistono come gruppo etnico distinto» e che tale insegnamento veniva spacciato come «parte degli sforzi per indebolire i miti del nazionalismo». Pura frenesia ideologica. Un pericoloso piano inclinato su cui le storture woke prendono velocità e si impongono come pensiero dominante.

Si pensi, vicenda degli ultimissimi giorni, alle immancabili proteste pro-Palestina che hanno paralizzato anche Cambridge, accampamenti di attivisti a occupare i prati fuori da Kings College, studenti con sciarpe legate su bocca e naso. Ma, soprattutto, decine di professori solidali con i manifestanti, o meglio schierati sempre sul fronte opposto rispetto a Israele, perché gli orrori del 7 ottobre si accantonano in fretta. Proprio come si fa in fretta a spazzare via il nome di una rivista e i suoi 50 anni di onorata carriera.

Ce lo impone il “politicamente corretto”, ce lo impone un senso di colpa atavico e conformista che una vera avanguardia culturale dovrebbe respingere. Invece no, la presunta avanguardia sceglie la sottomissione al peloso senso di colpa, puntellando senza farsi domande il processo di disgregazione dell’identità occidentale.

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