Cremlino

Russia, logorare e poi incassare: una strategia bellica secolare

Marco Patricelli

I russi fanno quello che hanno sempre fatto nella storia. Capaci di grandi disastri e di grandi vittorie, di sconsideratezze epocali e di sacrifici inimmaginabili, caparbi oltre ogni limite e determinati oltre ogni logica. Da Napoleone a Hitler, per arrivare all’Ucraina di Zelensky, il copione si ripete con i soli aggiornamenti della contemporaneità ma con uguale sostanza. Il còrso che volle farsi imperatore non riuscì più riprendersi dal disastro del 1812 che Chajkovskij consacrò in musica con un’Ouverture in cui tra gli strumenti ci sono i cannoni sottratti ai francesi: quelli che da allora stanno in bella mostra al Cremlino per ricordare la vittoria schiacciante sull’invasore.

Al caporale austriaco autoproclamatosi comandante in capo della più formidabile macchina da guerra del Novecento, i generali della Werhrmacht che avevano ancora gli stivali sulla terra e non nel mondo dei desideri di onnipotenza, rimproveravano di non conoscere la mentalità russa e neppure le qualità dei soldati russi messe in mostra nelle trincee e nelle pianure del fronte orientale, poiché il portaordini col baffetto arruolato nell’esercito tedesco aveva conosciuto solo il fronte occidentale. I russi dello zar furono suonati come le zampogne nella guerra del 1904-1905 dai giapponesi che li batterono e umiliarono a Port Arthur su terra e a Tsushima sul mare, ma aspettarono le due bombe atomiche americane per entrare in guerra qualche giorno contro il Giappone e a vendicarsi con gli interessi. I russi di Lenin e di Stalin furono sonoramente sconfitti nel 1920 dai polacchi, ma nel 1939 si ripresero tutto e nel 1945 fecero addirittura spostare la Polonia sulla cartina d’Europa per inglobarsi i territori orientali poi confluiti nelle repubbliche socialiste sovietiche di Bielorussia e Ucraina.

Due anni fa Putin, dopo aver tanto pazientato dal suo punto di vista, ha deciso di fare altrettanto con la riottosa Ucraina di Zelensky alla quale aveva già strappato nel 2014 la Crimea donata dall’ucraino Krušcëv alla sua terra, ed è stata la volta del Donbass che ha innescato nell’Europa e nel mondo occidentale la risposta per slogan e per muscolarità verbale. A partire dalle sanzioni che la storia ha dimostrato essere del tutto inefficaci con Stati militarmente forti e dotati di materie prime, sempre che sappiano votarsi all’economia di guerra, domando variabili di cui i regimi assoluti come quello putiniano neanche si curano: opinione pubblica, costo in vite umane, sacrifici richiesti alla popolazione. Secondo lo stile russo ha mandato avanti i provinciali, gli orientali, i cadetti, i detenuti, i mercenari, le terze e quarte linee, sfiancando il non irresistibile esercito ucraino già depotenziato di suo e legato ai nuovi nemici dalle comuni e superate dottrine militari sovietiche. Europa e Stati Uniti, neo bizantini, si sono messi a discutere di sesso degli angeli sulle armi offensive e quelle difensive, allargando i cordoni della borsa svuotandosi di residuati bellici impolverati nei depositi e lesinando il materiale moderno e strategicamente decisivo, condendo il tutto con bellissimi e virili proclami di solidarietà sulla difesa della democrazia, con la schizofrenia dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Ue, quando già una fetta consistente del suo territorio se n’era andata. Tra il delirio di grandeur di Macron con la “minaccia” (virtuale) di mandare i soldati francesi dove i loro avi erano stati in epoca napoleonica per impedire il totale tracollo ucraino e la pagliacciata italiana del proclama di Zelensky al Festival di Sanremo per “arruolare” partigiani alla causa di Kiev; tra l’inconsistenza politica delle Nazioni Uniti e le velleità parapacifiste sulla pelle degli altri, un solo fattore rimane irrisolto e irrisolvibile, posto che le guerre si vincono e si perdono e quasi mai si pareggiano, soprattutto se il campo ha già designato un vincitore.

 

Il problema etico è la legge del più forte, che usa la forza e riscontra la debolezza, e quindi impone la sua volontà. Da che mondo è mondo gli equilibri si fondano sulla potenza e sulla deterrenza. Putin ha risparmiato nella prima fase l’aeronautica, per non gettarla in pasto alle contromisure dell’antiaerea, ha subito smacchi sul terreno e d’immagine, ma ha fatto il russo: ha martellato e martellato incurante delle perdite, ha logorato Ucraina & alleati-ma-non-tanto, e poi è passato all’incasso. La Russia non ha dimenticato che, dopo aver battuto l’impero ottomano nel 1877 vendicando il disastro nella guerra di Crimea del 1853-1856, con la Pace di Santo Stefano la diplomazia europea (che all’epoca dava le carte su tutti i tavoli che contavano) riuscì a ribaltare la vittoria militare zarista in un clamoroso flop politico. All’epoca guidava Bismarck, ma oggi non va sottaciuta la sintonia fattuale della Germania che i suoi interessi portano da tempo a flirtare con Mosca, indipendentemente di chi sta nella stanza dei bottoni, in un’edizione riveduta e corretta dell’Ostpolitik del cancelliere di ferro. Dalla pax romana, che era quella imposta dalle imbattibili legioni, alla pax rutena che arriva da est con le truppe corazzate e missili che stanno piegando anche le speranze di Kiev. Il tavolo delle trattive potrà essere anche quello di Istanbul di marzo 2022, ma nel frattempo il margine si è ridotto al lumicino: giusto il minimo sufficiente a salvare la faccia. O forse neppure quella.