Controsenso

Geert Wilders, se il politico è di destra l'insulto fisico è lecito

Carlo Nicolato

 

I commenti politici più originali apparsi in questi giorni sui giornali a proposito di Geert Wilders e della sua sorprendente vittoria alle elezioni in Olanda sono stati quelli relativi alla sua capigliatura. «Capelli tinti di programmatico biondo ariano» li ha definiti il Corriere, capelli inquietanti che sottolineano lo «sguardo sprezzante» da estremista di destra anti-islam. 

Insomma una sorta di nazista che secondo quanto dicono i suoi avversari in Olanda si sarebbe fatto tingere i capelli per far dimenticare le origini asiatiche e coloniali della sua famiglia. Soprannominato per la sua cofana «Marilyn», «Mozart», o «Capitan Perossido», lo ha fatto notare sempre il Corriere aggiungendo che lo chiamano così anche i suoi, c’è chi ha paragonato il suo ciuffo a Trump (La Stampa) e chi ne ha perfino tratto una conclusione politica: i populisti hanno un problema con i capelli. Ci ha pensato la versione europea di Politico a vergare in proposito, proponendo un articolo ironico a quiz in cui oltre a Wilders e Trump è stato inserito il presidente argentino Milei, l’ex premier britannico Boris Johnson, e perfino Kim Jong Un, oltre a Ursula von der Leyen per la quale la testata americana nutre ben poca simpatia.

Si tratta di un divertissement ovviamente, anche se gli accostamenti non sono certo casuali, e noi ne siamo divertiti, ma si tratta anche di “body shaming”, come lo chiamano loro, cioè uno dei capisaldi del corrente pensiero corretto di sinistra secondo cui una persona non va giudicata dal suo aspetto, dai suoi difetti fisici e nemmeno ovviamente dalle sue scelte sessuali, di genere ed estetiche.

 

Negli Stati Uniti politici e testate di destra che hanno osato criticare l’aspetto ridicolo dell’assistente segretario per la Salute Rachel Levine, ammiraglio uomo travestito da donna, cioè transessuale, sono finiti nel tritacarne delle peggiori accuse di omofobia, transfobia, body shaming e chi più ne ha metta. Tra i giornali indignati sul caso c’era anche il Washington Post che poco tempo fa ha pubblicato un articolo politico sull'argentino Milei titolandolo impunemente sui suoi capelli.

«Questo politico ha appena vinto le primarie in Argentina. I suoi capelli stanno sconcertando il mondo», ha scritto l’illustre quotidiano statunitense, cogliendo anch’esso una correlazione tra la capigliatura, in questo caso vagamente da rockabilly, e le sue posizioni politiche. Inutile dire che negli Stati Uniti sulla capigliatura di Donald Trump sono stati scritti articolesse e trattati, prodotti vagoni di vignette e meme.

Vanity Fair ne fece perfino una “storia illustrata” rigorosamente da «non leggere prima dei pasti», mentre ancora il Washington Post pubblicò un lungo pezzo sulle «100 più grandi descrizioni mai fatte dei capelli di Donald Trump». La correlazione tra il ciuffo dell’ex presidente e le sue vicende politiche è diventata così intensa che Repubblica nel novembre del 2019 riuscì a leggere nel grigio apparso tra i capelli tinto biondi arancio «il segno inequivocabile della sua sconfitta». Sia chiaro, siamo noi i primi a divertirci per questi commenti, a non trovarci nulla di strano nel ridere per le scelte bizzarre delle cofanate populiste, ma non siamo stati noi ad inventare il “body shaming” quale reato punibile con la gogna pubblica. La sensazione è che ci sia un tragicomico doppio standard anche su queste piccolezze o che, peggio ancora, la sinistra si aggrappi ai capelli dei populisti che vincono le elezioni e governano quando è a corto di argomenti.