Umiliate

Gaza, violentate e sottomesse: ecco come vivono davvero le donne

Claudia Osmetti

 Ma l’Onu, prima, dov’era? In un comunicato di pochi giorni fa, l’Unwomen, ossia la costola delle Nazioni unite che si occupa di uguaglianza di genere ed emancipazione femminile, ha scritto che dopo il 7 ottobre e «i successivi attacchi israeliani a Gaza» si è registrato lo «sfollamento di quasi 493mila» donne nella Striscia e un incremento di «circa 900 mogli che sono diventate capofamiglia a seguito della morte dei loro partner». Insomma, che è cresciuto il numero delle vedove palestinesi. E che è «destinato a crescere ancora se non verrà raggiunto il cessate il fuoco». Un appello umanitario, che se si limitasse a questo sarebbe persino sottoscrivibile. Nessuno, men che meno Gerusalemme, che dall’inizio della controffensiva lo dimostra, per esempio chiedendo alla popolazione di evacuare, vuole un eccidio di civili. Da una parte come dell’altra.

Ma il punto è proprio l’altra, di parte. Non c’è il benché minimo riferimento, nella richiesta di pace incondizionata, il cui testo è infatti disponibile in arabo e in inglese ma non in ebraico, per le centinaia di donne trucidate nel pogrom jihadista dei kibbutz, oppure per quelle sventrate mentre erano incinta, oppure per quelle stuprate e decapitate dalla furia terroristica di Hamas. Zero, neanche un accenno. Non a caso il Jerusalem institute of justice (il Jij), che a differenza dell’Onu è un’organismo serio, lunedì scorso ha scritto un’accorata lettera a Sima Bahous, la direttrice esecutiva del programma Unwomen, per protestare. Per ribadire che l’impegno della sua organizzazione «non deve essere unilaterale» e deve «abbracciare il benessere di tutte le donne senza eccezioni». Per sottolineare che, se è lecito parafrasare uno slogan tanto caro dai radical-chic di mezzo pianeta, “anche le donne ebree contano”.
 

 

REALTÀ IGNORATA
Ha ragione, il Jij. E ha ragione (a metà) anche l’Unwomen quando difende le donne di Gaza. La metà del problema su cui ha torto è che lo fa solo adesso. Prima della guerra il tasso di disoccupazione femminile a Gaza raggiungeva la cifra elevatissima del 62% (tra le più alte del mondo), percentuale che è aumentata a dismisura (del 27%) quando Hamas si è imposta nella Striscia: l’Onu allora non aveva niente da dire? Un sondaggio del 2018 riportato sul sito delle Ifd, le forze di difesa israeliane, sostiene che il 51% delle donne sposate, a Gaza, ammette di aver subìto una qualsiasi forma di violenza (fisica, sessuale, sociale, psicologica o economica) da parte del marito: l’Onu non ha mai avuto niente da dire? Prima che i tank israeliani passassero la frontiera di Erez, a Gaza il 29% delle donne si sposava senza neanche aver compiuto diciotto anni, addirittura il 13,4% senza aver raggiunto i quindici (nonostante la normativa di famiglia, mutuata da quella egiziana, imponga il limite dei diciassette anni: ma un conto è il diritto e un altro è ciò che avviene nelle moschee): l’Onu non aveva niente da dire?

Secondo la legge sull’Educazione del 2013, a Gaza, tutte le scuole, comprese quelle private e gestite dall’Onu che quindi non può non sapere, devono essere rigidamente separate per genere e in alcun modo un insegnante maschio può tenere una lezione in una classe femminile: l’Onu, che tanto ciancia di parità, non ha niente da dire? Nel febbraio del 2021 una corte islamica di Gaza, una di quelle che applica la sharia, ha stabilito che una donna, per andare anche solo a Rafah, deve avere il permesso di un famigliare di sesso maschile e, se non ha un marito, deve chiedere al proprio tutore (magari il padre o il fratello o lo zio): l’Onu non ha niente da dire? A Gaza, ma anche a West Bank, gli uomini possono chiedere il divorzio per qualsiasi ragione, le donne solo se riescono a provare determinate circostanze (come i disturbi mentali) e, in ogni caso, in tribunale, la testimonianza di una donna vale la metà, sicché ne servono almeno due per far valere una ragione su un uomo: l’Onu non ha ancora niente da dire?

In realtà qualcosa da dire, l’Onu, in questi anni l’ha avuta: nel giugno del 2022, la Escwa, la Commissione economica per l’Asia che ha sede a Beirut, ha stillato un report di sessanta pagine proprio sulla situazione socio-economica delle donne palestinesi. Già è curioso che non sia stata la Unwomen a farlo, ma un’agenzia sorella, peraltro con base libanese: ma quelle pagine, che riprendono gran parte dei problemi sopra elencati, sono tenute assieme dal ritornello di rimandi come «a seguito dell’occupazione israeliana», «per l’impatto delle politiche di Israele», «a conseguenza del blocco voluto da Israele» e via dicendo. Si torna all’inizio, quindi. Al comunicato della settimana scorsa che non comprende le donne israeliane e che, di fatto, si preoccupa solo di quelle palestinesi.

IL DRAMMA DEI BAMBINI
Un analogo discorso, tra l’altro, vale per i bambini che stanno drammaticamente morendo a Gaza. Quegli oltre 400 al giorno che sono un numero impressionante e che piange il cuore di tutti a leggerlo: non solo l’Unicef e l’Onu, ma pure Mohammad Shtayyed, che è il primo ministro palestinese di Ramallah, stanno spendendo fiumi di lacrime in tivù. Dimenticando, tuttavia, come denuncia ancora il Jij, che i bimbi soldati reclutati da Hamas dentro Gaza per combattere lo Stato ebraico sono almeno 17mila e che altri 230mila vengono indottrinati a scuola con testi che cancellano Israele dalla cartina geografica o che giustificano l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del ’72 come «un colpo inferto agli interessi sionisti all’estero». Possibile che l’Onu, con tutte le sue derivazioni, dall’Unwomen all’Unicef su su fino all’Unrwa, non abbia, ancora e ancora, di nuovo e per sempre, nulla da dire a riguardo?