Tycoon

Donald Trump indagato? Una macchina da soldi: cosa sta succedendo

Matteo Legnani

«Domenica sera, mentre mi trovavo a casa con la mia famiglia, ho ricevuto dai miei avvocati notizie orribili per il nostro Paese». Così, in una lettera diffusa sul suo social network Truth Social, Donald Trump racconta ai suoi sostenitori dell’ordine ricevuto dal procuratore speciale Jack Smith (lo stesso che lo sta perseguendo nel processo relativo ai documenti classificati rinvenuti presso la sua residenza di Mar a Lago in Florida) di presentarsi entro quattro giorni davanti al gran giurì che sta conducendo l'indagine sull'attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2020. «Una cosa (quella di presentarsi davanti a un gran giurì, ndr), che solitamente si conclude o con un arresto o con una incriminazione» spiega ancora l'ex presidente degli Stati Uniti, che si autodefinisce «un bersaglio».

L’ipotesi dell'accusa è che Trump abbia ostacolato, o tentato di ostacolare, il trasferimento dei poteri all'allora presidente eletto Joe Biden, anche se (come specifica anche il New York Times), non è chiaro al momento quali specifici aspetti dell'indagine condotta dal procuratore Smith possano portare Trump ad essere mandato a processo.

 

TRE PROCESSI
Se questa settimana fosse incriminato dal grand giurì che indaga sui fatti del 6 gennaio 2020, Trump si troverebbe sul banco degli imputati in tre diversi processi in altrettante giurisdizioni, dopo il rinvio a giudizio per l'accusa di corruzione nel caso della pornostar Stormy Daniels e quello per i documenti classificati. E, come fa notare lo stesso NYTimes, il calendario dei processi potrebbe farsi alquanto complicato, visto che l'imputato ha il diritto di essere in aula in ognuna delle udienze che lo riguardano e visto che Trump sta, da libero cittadino, conducendo la campagna elettorale per le presidenziali che si terranno nel novembre del prossimo anno.

Una campagna che, al momento, lo vede senza rivali sul fronte repubblicano: l'aggregatore di sondaggi FiveThirtyEight lo dà sopra il 50% (50,4%), con un trend in crescita rispetto al 40-45% dei primi mesi dell'anno. Il vantaggio sul suo più diretto inseguitore nell'avvicinamento alle primarie, il governatore della Florida Rod De Santis, varia da 26 a 40 punti percentuali, guardando i sondaggicondotti negli ultimi dieci giorni da YouGov, The Economist, Premise e Morning Consult. In media, De Santis è dato al 21,5%, con l'indice di gradimento quasi dimezzato rispetto a quello di cui godeva tra gennaio e marzo. Il governatore si è sgonfiato come un palloncino quando l’effetto della sua nettissima vittoria-bis in Florida si è smorzato e la decisione di correre per la Casa Bianca lo ha obbligato a salire sul palcoscenico nazionale. Gli altri contendenti per la nomination nel GOP sono ancora più staccati: all'ex vice di Trump, Mike Pence, è attribuito un indice medio di gradimento del 7,2%, il miliardario di origine indiana Vivek Ramaswami è al 5,8% e l'ex ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Nikki Haley, al 4,4%.

 

MACCHINA DA SOLDI
Le incriminazioni formali non hanno fermato nemmeno la macchina da soldi che Trump è sempre stato. Nel secondo trimestre del 2023, il comitato per la sua rielezione ha ricevuto dai sostenitori oltre 35 milioni di dollari. Ossia, quasi più del doppio di quanto (18,8 milioni) lo stesso comitato aveva raccolto nei primi tre mesi dell'anno, quando Trump non aveva ancora ricevuto alcuna incriminazione formale. Certo, il presidente in carica Joe Biden, nello stesso secondo trimestre ha raccolto in finanziamenti alla sua campagna per la rielezione la bellezza di 72 milioni di dollari. 

Ma i gruppi di interesse che sostengono il presidente non possono certo essere paragonati a quelli di uno sfidante che, come tale, è fuori dalla stanza dei bottoni. Tronando in casa repubblicana, De Santis nello stesso trimestre si è fermato a venti milioni (e lunedì ha dovuto lasciare a casa una dozzina di membri del suo comitato elettorale), mentre Mike Pence non è andato oltre i 3,8 milioni. Insomma, Trump continua a tirare. E i cazzotti del Dipartimento di giustizia, più che mandarlo al tappeto, sembrano rianimarlo ogni volta di più.