Il colloquio

Russia, Spannaus: "Putin il male minore, lo sanno anche gli Usa"

Maurizio Stefanini

Giornalista e analista politico statunitense radicato in Italia, Andrew Spannaus è docente universitario, fondatore della newsletter Transatlantico.info, Consigliere Delegato della Stampa Estera di Milano, autore dei libri “Perché vince Trump” e “L’America post-globale”, ma soprattutto tiene a ricordare di essere l’autore del podcast “House of Spannaus”. «Ho appena fatto una puntata su Xi e Putin», ci ricorda al momento di iniziare l’intervista. E che si può dire allora del loro incontro?

«Possiamo dire che Xi Jinping sta coltivando una politica di neutralità pro-Russia. La Cina ha bisogno di una Russia forte, ma non vuole perdere troppo i rapporti con l’Europa. E gli Stati Uniti dopo aver ripetuto almeno da un anno che Putin è debole perché isolato adesso devono preoccuparsi per il fatto che questi due Paesi insieme potrebbero trascinare un blocco molto più ampio contro l’Occidente».

La Russia è molto meno isolata di quanto ci si aspettasse. Ma anche molto meno forte, dal punto di vista militare, di quanto non si pensava prima di questa guerra.
«Senz’altro. Putin ha fatto un errore, chiaramente. Non solo perché è sbagliato invadere un altro Paese, ovviamente. La minaccia dell’invasione dell’Ucraina andava a vantaggio della Russia, ma invece la speranza che Kiev sarebbe caduta senza neanche combattere lo ha messo chiaramente in una posizione di debolezza».



 

Ha rafforzato la Nato, alla fine...
«Certamente. Vediamo anche questo governo italiano, magari in passato avrebbe avuto posizioni diverse, invece oggi è nettamente dalla parte di Kiev».

Il dilemma dell’Occidente, secondo molti analisti, sarebbe che non si può né far vincere Putin, né farlo perdere troppo.
«Negli Stati Uniti ci sono pochi disposti a rischiare un conflitto più diretto con la Russia e c’è sicuramente la preoccupazione di cosa verrebbe dopo l’attuale leader. Putin non è mai stato la destra in Russia, come qualcuno di noi ha cercato di spiegare per anni. Chiaramente ha abbracciato una posizione più dura quando non è riuscito a ottenere quelle che lui considera le garanzie di sicurezza necessarie per la Russia. Una sfera di influenza che noi in Occidente abbiamo negato, ma a cui Mosca ritiene invece di avere diritto. Ma negli Stati Uniti c’è oggi una crescente differenza tra quel che si dice privatamente e quel che si dice pubblicamente. Vogliamo mantenere forte la pressione sulla Russia a livello pubblico, vogliamo aiutare l’Ucraina a non dover cedere territorio, ma si riconosce che ciò non è realistico al 100%».

 



Ma l’America non sembra impegnarsi sempre di più nella fornitura di armi e nel supporto di intelligence all’Ucraina?
«La vicenda del drone abbattuto vicino alla Crimea è istruttiva. La penisola per la Russia rappresenta un interesse, dal loro punto di vista, esistenziale. Hanno voluto far sapere che, se anche solo ci avviciniamo per raccogliere informazioni, loro sono pronti a reagire. Di questo si è parlato dietro le quinte, tra Stati Uniti e Russia, perché i canali militari sono aperti. Ma quella è una linea che per ora Biden non è disposto a oltrepassare. Quindi la domanda rimane: si va avanti all’infinito osi cerca di congelare il conflitto? Ci sono non pochi negli Stati Uniti che sarebbero disposti a cedere qualcosa al Cremlino».

La Russia si lamenta del non riconoscimento di una sua sfera di influenza, ma in realtà è piuttosto normale che coloro che si sentono bullizzati da un vicino potente facciamo sponda con i nemici di quel potente, che a sua volta magari bullizza i propri confinanti. Il punto non è però proprio la scarsa capacità di influenza della Russia sui suoi vicini?
«Chiaro. Dopo gli anni ’90 la Russia ha vissuto un crollo drammatico. Putin è arrivato proprio per risollevare la dignità e anche l’economia russa, ma è evidente che sono lontani da quelli che sono gli Stati Uniti o anche la Cina. E la Russia anche ha mancato nell’obiettivo di costruire una economia manifatturiera sufficiente negli ultimi dieci anni. Però probabilmente questa guerra li spingerà, lo sta facendo già, a cercare di rimediare a alcuni di questi problemi. Ma più importante è ciò di cui già si parlava negli anni 90: il triangolo strategico Russia-Cina-India. L’India doveva stare A sinistra, il giornalista americano Andrew Spannaus. Sopra, un obice ucraino apre il fuoco sulle postazioni russe attorno a Bakhmut, nel Donetsk. A destra, in alto Vladimir Putin, Narendra Modi e Xi Jinping al G20 di Osaka 2019. Russia, Cina e India (ma soprattutto le prime due potenze) stanno costruendo un nuovo polo di potere mondiale in competizione con l’Occidente. A destra, in basso, il segretario di Stato americano, Antony Blinken, artefice della politica estera dell’amministrazione democratica, spiega qualcosa al presidente Joe Biden durante una riunione di gabinetto alla Csa Bianca (Getty, LaP) dalla nostra parte: questo è stato l’obiettivo della strategia indo-pacifica. Però l’India, pur mantenendo chiaramente i rapporti con l’Occidente, ha quintuplicato il commercio con la Russia e non ci pensa minimamente a staccarsi».

Per parecchio tempo, anche se il tipo di governo non piaceva, il rapporto con la Cina è stato essenziale, Poi però sono emersi problemi in quantità, a partire dal fatto che la delocalizzazione provoca deindustrializzazione, disoccupazione e il tipo di debolezze strategiche evidenziate dalla pandemia. 
«Abbiamo creato noi la Cina, nel senso che la globalizzazione e la delocalizzazione sembravano essere nostro interesse. I cinesi sono stati furbi e l’hanno utilizzato. È stato un grandissimo autogoal, da parte nostra il promuovere la deindustrializzazione e puntare tutto sui servizi. Adesso c’è un cambiamento significativo, con dei correttivi alla globalizzazione e una nuova politica industriale, in cui l’obiettivo generale è vincere la competizione tecnologica e economica con la Cina. La difficoltà è se questa competizione può rimanere solo economica o se invece diventa militare, chiaramente».

Nell’Occidente finanziarizzato le banche crollano. Nella Cina industriale vediamo il Pil che va giù, la crisi del settore immobiliare, la crisi demografica....
«La Cina sicuramente ha aspetti interni che deve gestire. Ha vantaggi e svantaggi. Il vantaggio è che non ha problemi a manipolare il sistema. Lo svantaggio è che con il controllo dello Stato sulla economia che aumenta non potranno generare abbastanza innovazione Intanto l’Occidente ha iniziato a migliorare un po’. C’è una nuova politica industriale, con l’abbandono di una visione iperliberista nel commerciale, e che fonde la questione della necessità economica con la sicurezza strategica. C’è ancora molta strada c’è da fare, anche in Europa. Ma la direzione c’è».

Il clima di guerra commerciale tra Stati Uniti e Europa che c’era al tempo di Trump, è stato superato con questa guerra? O ci sono problemi di fondo che prima o poi torneranno alla ribalta?
«La tensione non è stata del tutto superata. Trump ha cambiato gli Stati Uniti. Non è che andato via Trump sono andate via le sue linee direttive, sulla Cina e sulla politica industriale. Biden sta facendo politica industriale in modo più efficace di Trump, ma non è tornato indietro alla globalizzazione in stile Obama. Ciò significa incentivi e spesa pubblica, per investire in America e comprare in America. All’Europa non piace questo, ma io le consiglierei di essere realista».