Dipendenza

Russia, Giuseppe Dentice: "Italia schiava di Mosca per almeno 5 anni". Il dramma della dipendenza energetica

Benedetta Vitetta

Bisogna ammetterlo, l'avvio del conflitto Russia-Ucraina qualcosa di buono l'ha prodotto: mettere definitivamente in luce la nostra endemica dipendenza dal gas e dalla maggior parte delle materie prime. Oggi, infatti, l'Italia importa dalla Russia il 43% del gas naturale totale che consuma ogni anno (76,1 miliardi di metri cubi solo quelli del 2021). E così - dopo il primo attacco sferrato dagli uomini dello Zar Putin ai danni dell'Ucraina - ci siamo immediatamente chiesti cosa potrebbe accadere nel caso di uno stop, parziale o totale, delle forniture russe causato da un errore, un banale incidente oppure dettato da una precisa scelta polica. Soprattutto visto che la nostra autonomia è al massimo di 8 settimane. Ecco che il governo - che a breve secondo Paolo Scaroni potrebbe imporci per decreto di abbassare la temperatura di casa - s' è immediatamente messo al lavoro per trovare contromisure che riducano le conseguenze di un eventuale black-out energetico. E dare un definitivo taglio a questa "schiavitù" russa. Per comprendere meglio la situazione e quali strade l'Italia potrebbe imboccare per affrancarsi da questa sudditanza energetica ci siamo rivolti a Giuseppe Dentice, Responsabile del Desk MENA presso il Centro Studi Internazionali (Cesi).

 

 

 

Dottor Dentice, secondo Lei in quanto tempo, in che modo e a quale prezzo l'Italia potrebbe liberarsi dalla dipendenza russa?

«Fare ipotesi sull'affrancamento dal gas russo è difficile. Senza dubbio va cercato un mix energetico, la diversificazione dei contratti e avere più interlocutori cui rivolgersi. Serve poi abbandonare un'unica fonte d'approvvigionamento, altrimenti è alto il rischio di trovarsi sempre alla canna del gas. Insomma, ciò che sta accadendo con l'avvio della guerra ci dovrebbe aver insegnato che le soluzioni tappabuchi servono a poco».

A cosa si riferisce?

«L'Italia deve iniziare a pensare a una politica energetica lungimirante e di lungo periodo, dopo decenni di assenza, perché non si può più andare avanti avendo come prospettiva l'oggi, l'immediato. In più serve una strategia politica sull'energia che non si basi solo su gas e petrolio, ma che passi anche attraverso una produzione italiana che utilizzi anche fonti rinnovabili».

Uno scenario che può prefiguarsi nel medio-lungo periodo, ma che possiamo fare nell'immediato?

«Beh, direi che sono stati positivi i viaggi ad Algeri e a Doha fatti nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, accompagnato dal numero uno dell'Eni, Claudio Descalzi. Ma si tratta di soluzioni tampone che sostituiscono i nostri attuali canali d'approvvigionamento. All'Italia, ripeto, serve investire molto sulle infrastrutture energetiche che vanno dalle reti elettriche fino ai rigassificatori ma che ci possono permettere - consapevoli di essere un Paese dipendente da altri sul fronte energia - di avere più intercolutori a disposizione. Insomma, direi che è fondamentale avere una visione olistica del problema».

 

 

 

Oltre a quelli che ha citato a quali altri fornitori potremmo rivolgerci?

«Non escluderei che a breve per trovare alternative al gas russo, potremmo rivolgerci all'Egitto, alla Libia e l'Azerbaijan. E bussare alla porta di Stati Uniti, Canada e Norvegia per il gas liquido. Considerando le nostre settimane di autonomia e il fatto che è marzo direi che fino all'estate non avremo problemi, ma dobbiamo muoverci subito per gli stoccaggi del prossimo inverno».

In una recente intervista il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha ipotizzato l'indipendenza dalla Russia entro 2 o 3 anni. Che ne pensa?

«Sono abituato a essere prudente. Per questo direi che la previsione di 2 o 3 anni mi pare troppo ottimistica. Io mi terrei su una forbice compresa tra i 5 e i 10 anni. Ritengo, però, sia possibile che nell'arco di 2-3 anni si possa dimezzare la percentuale di stoccaggi russi. Passando dal 40 al 20%. Infine, sempre legato alla Russia e all'Ucraina, c'è un altro problema che stiamo completamente sottovalutando e che rischia di esplodere. Pure sul fronte cerealicolo, in particolare sul grano, abbiamo problemi d'approvvigionamento (il 65% è importato, ndr). Dall'inizio del conflitto il prezzo del grano è salito del 20% e quello della pasta è aumentato del 12% e potrebbe arrivare a sfiorare il 30 per cento. Una soluzione? Aumentare la produzione interna mettendo un tetto ai prezzi».