L'analisi
Russia e Occidente, la verità sulla guerra in Ucraina: un storia di "reciproci fraintendimenti"
“Le sanzioni non impediranno alla Russia di continuare a tutelare i suoi interessi nazionali” è stato uno dei commenti del Cremlino alle durissime contro-misure adottate da USA ed UE dopo l’attacco del 24 febbraio. “Le sanzioni non impediranno…” dichiarazione sulla quale sarebbe bene soffermarsi un momento. Ad oggi Mosca è paragonata al Terzo Reich, il Times addirittura mette Putin in copertina con i baffi ala Hitler nonostante proprio Putin, a fine dicembre, abbia dichiarato illegale Memorial l’Associazione che perpetua la memoria dei crimini di Stalin.
Vabbè, sappiamo che ormai Mussolini, Hitler, Mao sono usati da stampa ed opinione pubblica come il parmigiano: stanno bene un po’ ovunque.
Tuttavia, se davvero si vogliono capire le ragioni del conflitto è bene fare un passo indietro… di una ventina d’anni, almeno: pile di tensioni e cumuli di fraintendimenti sfociati, ora, nella prima guerra sul continente dai tempi dei Balcani.
Fra le prime accuse mosse dalla Comunità internazionale al Cremlino c’è stata quella di aver riconosciuto le repubbliche separatiste. Ma a qualcuno la parola Kosovo dice qualcosa?
Guerre di febbraio Era il febbraio 1999 quando il fallimento dei negoziati di Rambouillet apriva le porte all’intervento NATO nei Balcani. Slobodan Milosevic (sì, quello che Clinton a Dayton chiamò “uomo di punta degli USA per la pace”) finì nell’occhio del ciclone per le violenze perpetrate da esercito e paramilitari serbi nella provincia, serba, del Kosovo.
Nulla di nuovo: il Kosovo era sottoposto a repressioni (anche dure) sin dai tempi del Maresciallo Tito. Stavolta, però, le spinte indipendentiste degli albanesi kossovari e l’odio di Milosevic per quella provincia ribelle e “traditrice” (il tradimento risaliva al 1389) si erano tradotte nel Massacro di Racak, casus belli dei negoziati prima e dell’intervento poi.
Nonostante Belgrado avesse ammesso che i morti potevano essere stati vittima di un’operazione contro l’UCK, la Serbia ancora oggi contesta la veridicità dell’indagine condotta dal team del diplomatico USA Walker nel gennaio 1999.
E oggi, come allora, parte del mondo non crede che l’intervento russo sia davvero motivato dal genocidio dei russofoni di Lugansk e di Dontesk. Certo è che l’episodio di Racak rappresenta un precedente: se gli Stati Uniti, in base a prove in loro possesso, hanno potuto accusare la Serbia di crimini di guerra, perché oggi la Russia non può farlo con l’Ucraina? E, soprattutto, se dal conflitto balcanico è nata la Repubblica del Kosovo, perché oggi non potrebbero nascere le Repubbliche di Ligansk e di Donetsk? A noi, che siamo nello schieramento Atlantico può sembrare una domanda assurda, ma per la diplomazia russa - forse - è più che lecita.
I valori dell’intervento Paragonare struttura ed obiettivi della NATO con quelli della Russia è impossibile. Della NATO fanno parte, infatti, le nazioni più avanzate al mondo, nelle quali il rispetto dei valori umani e democratici, delle libertà politiche e civili è al primo posto, mentre la Federazione Russa è oggi comunemente considerata una sorta di “democrazia autoritaria”. Certo, almeno nell’Europa occidentale nessuno capo di stato è rimasto in sella per quasi un quarto di secolo come Vladimir Putin.
Ad allargare il solco fra NATO e Russia ci sono inoltre i valori dell’intervento. In Kosovo ed in Afghanistan gli italiani ed i tedeschi sono ancora fra i militari dell’Alleanza più amati dai locali per la capacità empatica, organizzativa, per le doti umane e caratteriali che li rendono unici. Avendo subìto due guerre mondiali e la Guerra fredda sulla pelle, i membri europei NATO sono più propensi a pacificare e a ricostruire; gli Stati Uniti, invece, ricorrono a strategie senza alcun dubbio efficaci quando c’è da annientare una forza nemica. Ma decisamente inadatte ai conflitti asimmetrici: il B52 può distruggere batterie di terra ed infrastrutture, ma non piega le forze irregolari. Vietnam docet.
Se dal nostro punto di vista, dunque, i bombardamenti su Baghdad, Kabul, Hanoi, sulla Libia e su Damasco hanno avuto il fine di riequilibrare gli assetti mondiali a beneficio della democrazia, la diplomazia russa si domanderà: “perché colpire Kiev è da criminali e radere al suolo l’Irak è da liberatori?”
Domanda anche questa per noi assurda, per loro lecita.
Il no alla guerra I russi si domanderanno anche come mai non vi sia mai stata tanta mobilitazione di massa per iracheni, siriani, libici. O perché gli USA non siano mai stati espulsi dalla FIFA quando hanno attaccato Belgrado o quando hanno bombardato Baghdad. Il nodo di Gordio è proprio nell’incipit dell’articolo: tutelare gli interessi di Mosca a prescindere da cosa UE ed USA pensino sia giusto o sbagliato.
Lasciamo perdere le manifestazioni di piazza: quelle ci sono state sempre, quando D’Alema ha appoggiato l’operazione militare contro la Serbia, quando Berlusconi ha dato il suo sostegno alla lotta al terrorismo. Il problema è un altro: come arrivare ad una soluzione duratura del conflitto ucraino e del rapporto, civile, Occidentali-russi?
L’Ucraina sta dimostrando una tenacia ed una forza incredibili, ma permettere a Kiev di entrare nell’UE e nell’Alleanza è un errore tattico che potrebbe costarci molto caro.
Il terrore dei russi (che ha poi motivato l’attacco del 24 febbraio) è il sentirsi circondati, senza più alcuna via d’uscita. E’ venuto cioè meno quell’equilibrio di poteri che ha permesso, per quasi mezzo secolo, ad Est ed Ovest di convivere senza rischiare una guerra atomica.
Consegnando l’Europa orientale a Stalin, Churchill e Roosevelt sapevano di tradire gli alleati polacchi e cecoslovacchi, ma così facendo hanno garantito una stabilità tale da scongiurare alternative ben più gravi e devastanti.
Dopo il 1991, allargando ad est i confini dell’UE e della NATO quella stabilità è venuta drammaticamente meno. I russi, inoltre, non hanno mai conosciuto una democrazia simile a quella europeo-occidentale: dai tempi dell’assolutismo zarista e del totalitarismo sovietico, l’ “autocrazia” di Putin rappresenta forse la forma di stato più civile e “liberale” che i russi abbiano mai avuto.
Per quanto riguarda l’Ovest, ha sempre mancato di analizzare il vicino, nonostante ad ogni guerra cortei di manifestanti si lascino poi andare a vuoti elogi sulla pace, sull’armonia e sulla conoscenza del diverso.
Dunque, a tre decadi dalla Guerra fredda i due blocchi, pur ridimensionati, sono riemersi dalle nebbie della storia. Purtroppo i fraintendimenti e la diffidenza di ieri continuano a nuocere sul mondo di oggi: l’atteggiamento troppo aggressivo e le accuse di autoritarismo rivolte per anni a Putin hanno spinto la Federazione a chiudersi a riccio, a sentirsi ulteriormente isolata e circondata da nemici. Un vantaggio, per quella piccola parte della società russa che appoggia il conflitto ucraino; una dannazione per la stragrande maggioranza dei russi che, li abbiamo sentiti ai TG in questi giorni, si sente parte integrante della cultura europea. E che uscirà dalle sanzioni preda di un malcontento che gioverà ben poco a Bruxelles e a Washington e molto più al pericoloso nazionalismo d’ “oltre cortina”.