In missione
Afghanistan: la normalità solo dove comandano gli italiani
"La corruzione dilaga e la tossicodipendenza è aumentata del 600%” afferma il generale Mario Arpino in merito alla drammatica situazione interna dell’Afghanistan, da ormai 17 anni terreno di una dura guerra fra talebani e forze occidentali. Sì lo scontro campale è terminato ma attacchi e attentati mai sono cessati: intere zone, specie nel Nord Est sono sotto controllo degli “studenti coranici” la cui fuga è talvolta facilitata dagli scarsi controlli lungo la frontiera pakistana. L’Italia contribuisce alla missione Resolute Support con un contingente di 850 uomini; l’Operazione NATO che ha sostituito ISAF da inizio mese ha come vice comandante un italiano, il generale dell’Esercito Salvatore Camporeale, che assume l’incarico in un contesto critico: le elezioni parlamentari di ottobre e le prossime di aprile mettono a dura prova l’Afghan National Army costantemente preso di mira dai guerriglieri, con decine di morti e feriti che sfoltiscono le file e abbassano il morale di autorità locali e della popolazione. Secondo Arpino l’incarico di Camporeale è “certamente di grande prestigio nonostante le lievi riduzioni di organico apportate dal precedente e dall’attuale governo, ma che questa nomina possa comportare per noi un maggiore impegno è difficile dirlo. Certamente, non agevola un eventuale proposito di ridurre ulteriormente il contingente; quanto all’impegno personale dello stesso generale e del suo staff, trattandosi di un vice, questo dipende esclusivamente dalle deleghe che gli sono state attribuite dal Comandante americano, Austin Scott Miller. Non le conosciamo, e non possiamo quindi fare alcun raffronto con quelle a suo tempo attribuite al predecessore, il parigrado inglese John Cripwell”. Ormai da anni l’Italia mantiene il suo impegno nel Paese degli Aquiloni ad un prezzo molto elevato e in termini non solo economici: 53 caduti, dei quali il primo fu il tenente colonnello Carmine Calò nel 1998 nell’ambito di un’altra missione, sotto egida ONU; i feriti sono nell’ordine di centinaia. E’ insieme a UNIFIL la missione oltremare più lunga della storia repubblicana e nessun grande interesse nazionale all’orizzonte se non il dovere di mantenere una parola data alle forze della coalizione e a un popolo con il quale gli italiani sono riusciti, comunque, ad interagire bene. Arpino: “In effetti almeno nell’area ovest dove siamo presenti da più tempo la vita è tornata quasi normale: ci sono l’acqua e la luce e a molte ragazze le famiglie permettono addirittura di andare a scuola”. Non è un successo da poco, considerando che in due secoli nessun esercito è mai riuscito a piegare la nazione centro-asiatica, né i sovietici negli Anni ’80 né gli inglesi nell’Ottocento. Il celebre scrittore Rudyard Kipling (autore fra gli altri de Il libro della giungla) ricordava che “quando sei ferito e abbandonato, sulle piane dell'Afghanistan, e arrivano le donne a tagliare quel che resta, prendi il fucile e fatti saltare la testa e vai al tuo Dio da soldato”. Lezione che in pochi hanno imparato, al di fuori dei soldati italiani che, nella loro formazione, curano la conoscenza storica, culturale e linguistica del popolo afghano con tanto di corsi di pashtu e di dari alla Scuola Lingue Estere di Perugia. Un know tornato utile nel costruire una fiducia reciproca con i locali, come mostrato dall’interessante esperienza di Radio Bayan West. Dunque risultati significativi in un contesto drammatico sia per gli attentati terroristici, sia per le conseguenze del traffico di eroina e di oppio: “la corruzione dilaga, il business della droga (oppio ed eroina) si è fortemente incrementato, la tossicodipendenza interna è aumentata del 650 per cento, nell’Esercito e nella Polizia vi sono alti tassi di diserzione, insubordinazione e passaggio al nemico ed i richiedenti asilo afghani in Europa negli ultimi anni hanno superato i persino i siriani” continua Mario Arpino. All’instabilità poi si aggiunge l’influenza della Russia che ha da tempo ha intavolato trattative con i talebani per assicurare una pacificazione dell’area; gli ultimi incontri in termini di tempo sono stati a settembre e a novembre. D’altronde l’Afghanistan confina con le ex repubbliche sovietiche di Uzbekistan e Tagikistan, legate economicamente e politicamente a Mosca e anch’esse insicure e vittime della corruzione degli ufficiali governativi, nelle quali si intersecano i canali del traffico di uomini e di eroina verso l’occidente e verso la Federazione. Non che la Russia sia un nemico “diretto” (l’esperienza del ’79-’89 è stata sufficiente perché nessun carro russo rimetta più i cingoli in Afghanistan) ma la sua è una diplomazia che ha l’evidente fine di esautorare quella NATO. Arpino: “Il gioco di Vladimir Putin è chiaro, dove si creano dei vuoti, questi vanno riempiti. I russi sanno benissimo, per esperienza diretta (e prima di loro lo avevano già imparato gli inglesi) che l’Afghanistan, compartimentato com’è, non potrà mai essere né dominio, né terreno di conquista. Quindi, in questo momento i russi stanno cercando di acquisire meriti – a rendita futura – nel favorire dall’esterno il dialogo talebani--governo afghano, con l’Occidente in trepida attesa. Così facendo, Putin continua a guadagnare crediti anche con gli Usa, che non lo considerano alla stregua un nemico da battere, ma solo di un avversario da controllare”. Una politica estera destinata a garantire al Cremlino una posizione di forza in Asia centrale e in Medio Oriente: “C’è un filo rosso che accomuna ogni azione della politica estera russa. Questo filo segue e collega le tre direttrici di spinta delle forze centrifughe che si sviluppano dalla massa continentale euro-asiatica: in senso antiorario, i mari liberi dai ghiacci (Baltico), l’Ovest slavofono, il Mar Nero e, proseguendo, il Mediterraneo. Badando bene, tuttavia, a non toccare nulla di ciò che, un tempo, non avesse già fatto parte, in qualche modo, dell’orbita russo-sovietica. Un parallelo? Certo, eccolo: si tratta esattamente della medesima dottrina che Erdogan sta sviluppando nei confronti dei territori che erano un tempo compresi nell’Impero ottomano”. di Marco Petrelli