Strategie

Petrolio, il gioco al ribasso per far fuori l'Isis

Andrea Tempestini

La caduta del prezzo del petrolio da oltre 100 dollari al barile a 70 è pilotata principalmente dall’Arabia saudita per scopi sia economici sia geopolitici, in un mix in cui è difficile distinguere i due, ma che è importante scenarizzare per capire fino a quando continuerà il ribasso e se e quando vi sarà un rialzo. C’è un precedente: nel 1986 l’Arabia saudita amplificò una situazione di prezzo discendente per mettere in difficoltà i concorrenti con costi di estrazione più elevati e così conquistare quote di mercato, rafforzando il dominio nell’ambito dell’Opec, cioè del cartello di produttori che accordandosi sulle quantità di produzione influisce sui prezzi del greggio. Oggi la situazione è diversa, ma il progetto strategico appare simile: eliminare una parte dei produttori facendo scendere il prezzo del greggio per poi rialzarlo a piacimento grazie ad un maggiore dominio del mercato, ottenendo più profitti ed influenza nel futuro. Chi è il nuovo bersaglio? I produttori statunitensi che estraggono petrolio e gas dalla frammentazione delle rocce (fracking). Negli ultimi anni la produzione in America di petrolio e gas ottenuti con questa tecnologia denominata «shale oil/gas», ha raggiunto livelli tali da rendere non solo energicamente indipendenti gli Stati Uniti, ma anche potenziali esportatori. Quando Washington, qualche mese fa, ha segnalato la disponibilità a rimuovere il divieto di esportazione di idrocarburi, anche in funzione antirussa e di rassicurazione dell’Europa contro il potenziale ricatto energetico da parte di Mosca, l’Arabia saudita e l’Opec hanno visto la loro morte. I sauditi stanno reagendo cercando di portare il prezzo del petrolio attorno ai 60 dollari al barile, che è un prezzo considerato, mediamente, capace di portare i costi di produzione dello «shale oil» sopra i ricavi, rendendo insostenibili i conti economici e gli investimenti dei produttori. E lo stanno facendo mantenendo inalterata la produzione dell’Opec a 30 milioni di barili al giorno nonostante il calo contingente della domanda globale. Questo metodo di guerra economica (bomba di offerta) mette certamente in difficoltà gli stessi sauditi e l’Opec in generale. Ma la parte araba dell’Opec ha riserve monetarie tali da reggere perdite prolungate di profitto per anni. Andranno in grave difficoltà, invece, quelle nazioni che hanno calibrato i loro bilanci nazionali su un prezzo del petrolio superiore ai 100 dollari al barile. Entro l’Opec, certamente Nigeria e Venezuela. Fuori Opec, la Russia avrà un colpo durissimo non solo per i minori proventi dall’energia, ma anche per la cancellazione degli investimenti, molto costosi, per lo sfruttamento dei giacimenti artici. Il calo del prezzo, in sintesi, mette a rischio tutti gli investimenti per estrarre petrolio e gas che implicano megacosti. Ma per l’Arabia e gli Emirati sarebbe un’ottima notizia perché ridurrebbe nel futuro l’offerta di nuova energia premiando i vecchi produttori. Tuttavia, è difficile che in America produzione ed investimenti di «shale oil/gas», pur rallentati, si blocchino: i grandi gruppi, infatti, compreranno per poco i produttori più piccoli, come sta accadendo. La Russia, essendo un regime autoritario dove l’industria energetica è proprietà di fatto statale, resisterà. Quindi, diversamente dai commenti correnti, con il sostegno del mio team di ricerca in «geopolitica economica» (Università Marconi, Roma, e Oxonia, Oxford) dubito che l’Arabia voglia andare veramente fino in fondo rischiando un danno superiore al vantaggio. Potrebbe essere una mossa più finalizzata a scopi geopolitici pur combinata con il criterio economico detto sopra. Scopi possibili e tenuti riservati: (a) mostrare all’America che non può trattare con l’Iran sciita senza accordarsi anche con l’Arabia sunnita; (b) convincere la Russia a mollare Assad in Siria per facilitare la rimozione dell’Isis e poi costruire nella Siria stessa e nell’Iraq settentrionale uno Stato sunnita «normale», influenzato dai Saud, a contenimento dell’espansione iraniana/sciita nelle regione; (c) mettere in ginocchio i membri divergenti dell’Opec per dominare meglio il cartello; (d) costringere America e Russia ad accordarsi con l’Opec per una futura gestione concordata dei prezzi. Se così, è probabile che un qualche accordo emerga ed eviti ulteriori picchi in giù del prezzo che poi preparerebbero salti catastrofici in su. Ma l’Arabia ha fatto una mossa disperata e ciò implica che la diplomazia, in generale, non sta funzionando e ciò rende difficile capire se la frizione sarà controllabile o meno. In conclusione: al momento un ulteriore ribasso non è così certo, ma non è possibile escludere un su e giù traumatici e improvvisi. Poiché l’Italia ha un profilo di rischio elevato sia economico sia geopolitico in tale scenario incerto, mi sembra razionale raccomandare un ingaggio più determinato nel gioco da parte della nostra politica estera per favorire riallineamenti e riconvergenze. di Carlo Pelanda