La grana

Bengasi, l'ambasciatore Usa muore e Obama tace. Romney: "Non ha condannato gli attacchi ma il film"

Giulio Bucchi

  Un lutto per gli Stati Uniti, un segnale d'allarme per tutto il mondo, una bomba a orologeria per Barack Obama. La morte dell'ambasciatore americano a Bengasi J. Christopher Stevens e di 3 marines, uccisi dai fondamentalisti islamici nell'assalto all'ambasciata americana in Libia nei moti di protesta contro il film "blasfemo" su Maometto rischia di compromettere definitivamente la riconferma alla Casa Bianca del presidente democratico. Non è questione di forma o di immagine, ma di sostanza. Ancora una volta Obama si è dimostrato troppo morbido, timoroso, nella condanna degli incidenti provocati dalla follia dell'islam fondamentalista. Ieri, 11 settembre, ha ricordato che "l'America è in guerra contro i fondamentalisti, non contro l'islam". A giudicare dall'atteggiamento tenuto dopo i fatti di Bengasi e Il Cairo, c'è tanto da fare anche sul primo punto. Obama tropo morbido - Nella prima conferenza stampa dopo la tragedia, Obama ha definito "senza senso" la violenza di Bengasi, sottolineando che "gli Stati Uniti respingono ogni tentativo di denigrare le religioni degli altri". Parole che lasciano ancora più di una perplessità, visto che quel "dobbiamo opporci in modo e inequivocabile a questa violenza senza senso che è costata la vita di servitori dello Stato" oggi suonano frasi di circostanza, inadeguate alla sfida lanciata dall'Islam radicale. La critica di Romney - Già martedì, allo scoppio degli incidenti in Libia e in Egitto e l'annuncio della morte di un non meglio precisato funzionario americano a Bengasi, il governo democratico aveva commentato con poca convinzione. Lo ha sottolineato anche il rivale di Obama, il candidato repubblicano Mitt Romney: "Sono oltraggiato dagli attacchi contro le misioni diplomatiche americane in Libia ed Egitto e dalla morte di un dipendente americano del consolato di Bengasi. E’ vergognoso che la prima risposta dell’amministrazione Obama non sia stata quella di condannare gli attacchi ma di simpatizzare con coloro che li hanno compiuti". La gestione di queste drammatiche ore è stata caotica, a tratti tragicomica. Martedì sera l'ambasciata americana al Cairo aveva diffuso una dichiarazione in cui condannava il film anti-islamico all’origine delle proteste, mentre funzionari dell’amministrazione avevano successivamente reso noto che tali dichiarazioni non erano state concordate. Il fronte israeliano - Egitto e Libia ora, Medio Oriente domani: la rielezione di Barack si gioca su questi temi, spinosissimi. Su cui continua a tacere. Non una parola, per esempio, sull'Iran e sul possibile attacco di Israele a Teheran. La potentissima lobby ebraica da sempre filo-democratica si è lamentata non poco per il mancato appoggio del presidente al governo di Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano aveva chiesto un incontro, negato. Obama ha poi provato a ricucire i delicatissimi rapporti telefonando a Netanyahu: una conversazione di un'ora in cui ha assicurato la determinazione degli Usa "a evitare che l’Iran si doti di un’arma nucleare". Per ora solo parole, cui in pochi tra gli alleati nelle zone calde del mondo credono ancora. Parole cui gli stessi americani sembrano non credere più.