Non è finita

La forza dei padani

Andrea Tempestini

Bisogna riconoscere una cosa: pochi altri partiti avrebbero saputo far piazza pulita in una settimana del loro gruppo dirigente. Provate a immaginare se domani piovessero sul Pd le accuse cadute sulla Lega: secondo voi si dimetterebbero Bersani, il segretario amministrativo e il resto dei vertici? Credo proprio di no. Come è stato nel caso della Margherita e pure per le questioni riguardanti l’ex capo segreteria del numero uno del Partito democratico, Filippo Penati, i distinguo sarebbero mille e ogni scusa sarebbe buona per prendere tempo. Qualsiasi indagine in cui fossero  coinvolti il partito e suoi funzionari, i dirigenti troverebbero il modo per rimanere incollati alla poltrona. Pensate a Francesco Rutelli: sotto i suoi occhi il tesoriere ha fatto sparire più di venti milioni e lui, il Cicciobello delle due Repubbliche (la prima e la seconda, ma non è detto che non si candidi per la terza), non sente il dovere di riconoscere che è ora di andare a casa. Ma uno che si è fatto fregare dal suo più stretto collaboratore, che non si è accorto che gli stavano svuotando la cassa, come può presentarsi agli elettori dicendo fidatevi di me, datemi i vostri soldi, cioè le vostre tasse, e io le amministrerò per voi? Che altro serve per ritirarsi a vita privata? In fondo la politica è servizio per i cittadini. Chi è eletto si incarica di occuparsi della cosa pubblica e, usando la leva fiscale, di restituire ai contribuenti ciò di cui la collettività ha bisogno. Se, invece di fare il bene comune, un politico ruba va cacciato senza esitazioni. Ma se si fa fottere i soldi che gli sono stati affidati, bisogna tenerselo? Che affidabilità può avere un gonzo che per anni è stato derubato o finanziato a sua insaputa? È quello che ha dovuto riconoscere a malincuore anche Umberto Bossi il quale, tutto preso dal federalismo, non si è reso conto che in famiglia c’era chi aveva federato il salvadanaio del partito con il proprio portafogli. Alberghi, lauree e tra le spese sanitarie perfino un intervento per raddrizzarsi il naso. Le ultime notizie che arrivano da via Bellerio testimoniano infatti che più un politico è grande e più cade sulle piccole cose. L’Umberto voleva liberare la Padania da Roma ladrona, ma non si è accorto che prima doveva liberare l’abitazione di Gemonio dai rubagalline. I quali, da quanto si evince, mettevano a carico della Lega, ossia dei contribuenti, anche il caffè e altre spesucce private. Roba da far vergognare chiunque, a maggior ragione chi reclama pulizia nella pubblica amministrazione. Da quel che si capisce l’errore sta nel manico, ovvero nella debolezza paterna o materna. Papà Bossi e mamma Manuela avevano pensato di garantire un futuro al primogenito facendolo eleggere nel Consiglio regionale lombardo. Non avendo il giovanotto né arte né parte - ma soprattutto un  diploma - hanno pensato di applicarlo nella bottega di famiglia, ma, come spesso accade, il ragazzo è riuscito in poco tempo a mandare a gambe all’aria l’attività del babbo, conducendola al fallimento. Ora, liquidati in pochi giorni il fondatore, il figlio fannullone e la badante di papà (si spera), non resta che salvare il salvabile. Come dicevamo, pochi partiti sarebbero riusciti a fare piazza pulita al proprio vertice con tanta rapidità. E quasi nessuno, dopo la batosta, avrebbe ancora forti motivazioni per andare avanti. Ai comunisti, persi gli ideali, sono rimasti solo gli affari. Ai democristiani anche. Perfino il Pdl senza Berlusconi farebbe fatica a restare unito. La Lega no. Senza Bossi al Carroccio rimane pur sempre un’idea antistatalista e la voglia di un’economia non più schiava di Roma. Potrà sembrare poco, ma in realtà è molto di più di tutte le spese che Renzo Bossi si faceva pagare dal suo bodyguard. E da lì bisogna ripartire.