L'editoriale
Tra i due litiganti, ci rimette l’Italia
Come avevamo anticipato, Enrico Letta non ha alcuna intenzione di schiodare. Ieri scrivevamo che per rimuoverlo da Palazzo Chigi sarebbe stato necessario l’intervento della Gondrand. Non sbagliavamo: senza l’aiuto di una ditta specializzata in traslochi, il presidente del consiglio minaccia di restare nonostante le pressioni che da giorni Matteo Renzi esercita su di lui per indurlo a dimettersi. Lo ha detto chiaro e tondo ieri mattina al neo segretario del Pd, nell’incontro che i due hanno avuto a Palazzo Chigi. Decisione che ha ribadito in serata, durante la conferenza stampa in cui ha ufficializzato il patto di coalizione. Riunione surreale quella con i giornalisti. Mai infatti si era visto un premier sfiduciato che si presenta ai cronisti come se si apprestasse a chiedere la fiducia. Né si era assistito all’illustrazione di un patto di coalizione senza l’esistenza di una coalizione. Sì, perché mentre la confusione regna sovrana, una cosa è certa: il Pd si è sfilato dalla maggioranza di governo. O per lo meno dalla maggioranza che sorregge questo governo. Renzi non vuole Letta. Anzi: probabilmente non l’ha mai voluto, tuttavia fino a ieri faceva finta di nulla, limitandosi a punzecchiarlo con la storia del cambiamento di passo (le immagini delle dichiarazioni in cui invitava il premier a stare sereno hanno fatto il giro del web). Adesso invece vuole proprio che sloggi e che gli ceda il posto. Per indurlo a mollare la poltrona, il sindaco di Firenze è giunto a promettergli di arruolarlo nel suo prossimo governo come ministro degli Esteri, ma il premier non ha accettato il passo indietro, rifiutando qualsiasi offerta. Così, tutto è rinviato ad oggi, quando il segretario del Partito democratico dovrà parlare in direzione e lì è attesa la resa dei conti, il cui esito per molti è scontato: Renzi ribadirà le critiche al governo e Letta dovrà prenderne atto e far le valigie. Eppure l’epilogo non è affatto sicuro, perché se sono chiare le intenzioni del sindaco, meno chiari sono gli sviluppi che potrebbero verificarsi a seguito delle resistenze di Letta. Da dieci mesi il governo e il paese sono in una condizione di totale precarietà a causa delle lotte intestine dentro il Pd. Prima le faide consumate con l’elezione del presidente della Repubblica, poi gli inciampi di Pierluigi Bersani durante le consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo, quindi le dimissioni del segretario e la campagna per le primarie, infine l’elezione del nuovo leader e l’apertura di un fronte per indurre alle dimissioni il premier. Ora però la scelta di Letta di rimanere abbarbicato alla poltrona imprime una svolta alla guerra fratricida dentro la sinistra. Se il premier si impunta e per rimuoverlo si dovrà procedere con la forza, per il Partito democratico si aprirà una nuova stagione di veleni e rancori che rischia di minare il governo Renzi prima ancora che questo veda la luce. A parti invertite Letta e la fronda della vecchia guardia del Pd minacciano di fare al sindaco ciò che il sindaco ha fatto a loro. Insomma non proprio un buon inizio per uno che da Palazzo Chigi promette di cambiare il mondo. Se possibile, dunque, la situazione si fa più torbida di prima e ancor di più non si comprende perché il capo dello stato, cioè l’uomo a cui si deve tutto ciò (se non avesse scelto Monti al posto delle elezioni e non avesse tentato di eliminare politicamente Berlusconi oggi non saremmo in queste condizioni), anche ieri abbia respinto l’ipotesi di ritornare alle urne. Con il suo atteggiamento da vecchio burocrate comunista, Napolitano ci condanna a un altro periodo buio e soprattutto fuori dalle regole democratiche previste dalla Costituzione. Quello che nascerebbe con Renzi sarebbe infatti il terzo governo non eletto dal popolo: così, dopo aver tramato per sostituire un esecutivo legittimamente in carica, il presidente della repubblica si rende responsabile anche della sottrazione del diritto di voto. Ciò detto e dopo aver spesso criticato Enrico Letta per l’indecisione dimostrata in questi mesi, dobbiamo dare atto al premier di aver ieri dato prova di non essere di pasta frolla. Per una volta - forse l’ultima, di certo troppo tardi - ha picchiato i pugni sul tavolo. Pur essendo condannato dai suoi scarsi risultati, il presidente del consiglio non ha accettato di uscire di scena dalla porta secondaria. Né ha trattato sulla buonuscita. Anzi. Per una volta ha imposto il rispetto delle regole che in troppi dimenticano: i governi non cadono per i capricci di qualcuno, ma perché il Parlamento e i partiti gli tolgono la fiducia. Dalle stanze chiuse si deve passare alle aule aperte: in tal modo, gli elettori sapranno che cos’è successo e perché. Non siamo ancora un paese democratico, ma forse, con il tempo, lo potremmo diventare. di Maurizio Belpietro