L'editoriale
La Capitale deve fallire per salvarsi
Ignazio Marino piange miseria. Lo fa con un’accorata intervista a La Repubblica in cui minaccia addirittura di portare lo Stato in tribunale. Per il sindaco di Roma i Comuni sono allo stremo e per colpa della legge di Stabilità approvata ieri dal Parlamento l’anno prossimo lo saranno ancor di più. Secondo l’allegro chirurgo che ha mollato il camice per il Campidoglio, così si ammazza la gente perché si tolgono le risorse necessarie a garantire i servizi municipali: «Significa migliaia di posti in meno negli asili nido, decine di migliaia di buche non riparate nelle strade; linee di autobus cancellate; assistenza alle persone fragili azzerata». Insomma, il solito scenario da incubo: ogni volta che un governo mette mano alle spese e impone di tagliarle c’è qualcuno che si alza e prospetta pianto e stridor di denti. Il problema è che se c’è qualcuno che non dovrebbe proprio alzarsi e meno che meno lamentarsi questo è primo cittadino della Capitale. Non tanto Marino come persona, ma Marino come sindaco di Roma, cioè come rappresentante di una amministrazione che nel corso degli anni ha accumulato una montagna di debiti e che fino a pochi giorni fa non era neppure in grado di approvare il bilancio. Da sempre, cioè da prima di Rutelli, il Campidoglio spende più di quel che incassa. Quando era sindaco l’ex radicale (anzi: ex tutto e ora finalmente anche ex parlamentare) però si notava meno, perché all’epoca tra un Giubileo e un decreto di governo, di soldi ne giravano tanti e dunque nessuno si poteva lamentare. Poi con il tempo le cose si sono fatte più gravi, fino a esplodere con Gianni Alemanno. Subentrato a Walter Veltroni, il primo sindaco di centrodestra della capitale alzò il velo sui conti del Comune, rivelando una situazione finanziaria sull’orlo della bancarotta. Nel 2008, quando la sinistra perse le elezioni e fu costretta a consegnare le chiavi della città ad un ex missino, il debito lordo di Roma arrivava a 22,4 miliardi a fronte di crediti reali per 5,7 miliardi. Un dissesto finanziario da far tremare i polsi, che tradotto in lire, valuta corrente ai tempi di Rutelli, avrebbe voluto dire 44 mila miliardi di debito lordo, a fronte di soli 11 mila di crediti, molti dei quali non sempre esigibili. Da allora la situazione è un po’ migliorata, ma solo perché il governo nominò un commissario per il debito di Roma, incaricandolo di occuparsi per conto del Tesoro della montagna di miliardi che Roma doveva restituire a banche, fornitori e Stato. Non solo: per dare una mano all’amministrazione capitolina l’esecutivo dell’epoca si fece carico di un contributo “perpetuo” di 500 milioni l’anno, un regalino che ancora grava sui portafogli dei contribuenti italiani. Però, secondo quanto scritto in una relazione al parlamento del commissario straordinario di Roma Capitale, Massimo Varazzani, finora si è riusciti solo a tappare la falla, ma nonostante l’aumento dell’Irpef dallo 0,5 allo 0,9 per cento il debito non scende, perché ci sono gli interessi da ripianare e dunque nel 2017 si rischia di nuovo il crac. Ecco, di fronte a una situazione simile, vi pare che un sindaco assennato si possa mettere a minacciare cause allo Stato perché gli ha tagliato i viveri? Semmai dovrebbe preoccuparsi di aver appena approvato un bilancio con un disavanzo di 800 milioni, una parte dovuta ai tagli, ma un’altra accumulata nei mesi più recenti, cioè quando Marino era già sindaco. E invece no, il sindaco-ciclista ora pur accorgendosi che deve pedalare per riuscire a evitare il precipizio della bancarotta, spera che ci sia ancora una scorciatoia, cioè il soccorso rosso del governo. Letta cioè dovrebbe fare un’altra legge per Roma Capitale, allungando magari una nuova mancetta annua da 500 milioni. La realtà è che qui ci vorrebbe non un mollaccione come il presidente del Consiglio, ma una specie di Margaret Thatcher, la quale agli spreconi del suo Paese disse una semplice verità: se non siete capaci di far quadrare il bilancio dovete fallire. Tuttavia, anche senza scomodare la Lady di ferro basterebbe ricordare ciò che è successo a Detroit o anche - nel nostro piccolo - ad Alessandria. I Comuni, sia quello americano che quello piemontese, erano in rosso e non erano in grado di far fronte ai debiti e come qualsiasi azienda sono stati costretti a portare i libri in tribunale, cioè a chiudere i rubinetti, tagliare i servizi, bloccare le assunzioni. Nell’ex capitale dell’auto americana, per ripagare 18 miliardi di debiti hanno invocato il Chapter 9 della legge fallimentare in vigore negli Stati Uniti, con tutto quanto ne consegue in termini di rigore e riduzioni di spese. La nostra Capitale invece - nonostante il baratro che le si para davanti - fa finta di niente, pensando di poter continuare a scialare come ai tempi d’oro, nella speranza che prima o poi Pantalone metta mano al portafogli. E invece un’amministrazione che non volesse rendersi complice di un crac dovrebbe avere il coraggio di fare un’operazione verità e di dire ai propri cittadini come stanno le cose, rinunciando a ciò che la città non si può più permettere. In caso contrario Marino si renderà responsabile di un disastro più grande e allora saranno i contribuenti a dovere pagarne il conto. In particolare i romani, sui quali oltre a un debito pro capite tra i più elevati grava una tassa pro capite, cioè l’inasprimento dell’Irpef. Già ora Roma è la città con l’aliquota più alta d’Italia, ma se il sindaco non la smette di piangere miseria e non impugna il bisturi, in futuro potrebbe essere peggio. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet