L'editoriale
Occhio ai conti: c'è aria di prelievo forzoso
Va bene, a giugno abbiamo evitato di versare l’Imu rinviandola a settembre e a luglio abbiamo scampato il rincaro dell’Iva anticipando a novembre il saldo dell’Irpef. Ma alla fine, quando sarà il momento di tirare le somme, chi pagherà? Già, perché, come abbiamo scritto, quello del governo Letta è solo un gioco di prestigio. E quando sfumerà l’illusione ottica di aver fatto sparire le tasse che gravano sugli italiani, arriverà il momento di tirare le somme, e a qualcuno toccherà mettere mano al portafogli. E, se non si vuole essere tassati a nostra insaputa, sarà il caso di porsi la domanda e soprattutto di trovare la risposta. Negli ultimi giorni, passato l’entusiasmo per la decisione del governo di posticipare l’aumento dell’Iva al 22 per cento, anche i giornaloni hanno iniziato a interrogarsi su quel che accadrà in autunno, quando il contribuente sarà costretto ad affrontare l’ingorgo di tasse non pagate. Che cosa succederà se gli italiani saranno chiamati non solo a pagare l’imposta municipale unica che non hanno versato a giugno, ma anche la Tares che è stata posticipata e l’aumento dell’Iva? Come faranno i già magri stipendi a sopportare un surplus di tassazione? E le aziende già in crisi di liquidità e ordini, dove troveranno i soldi? Ovviamente tutti si rendono conto che Letta e i suoi ministri più che il governo del fare sono il governo del disfare, nel senso che smontano decisioni già prese, in particolare sul bilancio dello Stato, ma non montano altro, preferendo rinviare o aspettare tempi migliori. Tuttavia, se i tempi migliori non arrivassero entro l’anno, come probabilmente non arriveranno, che cosa potrebbe accadere? Quali voragini si aprirebbero nel bilancio dello Stato? In quale baratro sprofonderemmo se, come ha stimato ieri il nostro Franco Bechis, nelle casse pubbliche mancassero una decina di miliardi di euro? Altro che investire un miliardo per dar lavoro ai giovani: qui mancano all’appello molti più soldi di quanto si dica e se domani non vogliamo pagare con gli interessi ciò che non abbiamo corrisposto ieri, sarà il caso di aprire gli occhi. Come abbiamo più volte scritto, fosse per noi metteremmo da subito mano alle spese, tagliando tutto ciò che c’è da tagliare, a cominciare dagli sprechi di denaro della pubblica amministrazione. Ma ridurre la spesa comporta una fatica bestiale, bisogna scontentare qualcuno e sopportarne le proteste, che di solito sono chiassose. Insomma, roba da nervi saldi e non da persone che si impressionano subito e al primo strillo fanno retromarcia. Si potrebbe volendo mettere mano anche al patrimonio dello Stato che non viene utilizzato, vendendo caserme e edifici che non servono più. Tuttavia, ogni volta che ci si prova si incontrano mille resistenze, perché anche i palazzi dismessi hanno i loro difensori, e gli enti locali vogliono mettere bocca su tutto, negando l’autorizzazione a trasformare il fabbricato abbandonato in qualche cosa di utile. Risultato, per quanto ci si provi, né sul fronte delle spese pazze né su quello degli immobili lasciati andare in rovina c’è verso di trovare un euro. Ci ha provato Tommaso Padoa-Schioppa quando faceva il ministro dell’Economia di Prodi, hanno ritentato Tremonti e anche il Monti senza tre (quello che si sente tanto apprezzato all’estero e sottovalutato in patria), ora ci si sta scornando Saccomanni, ciò nonostante il risultato non cambia. Quindi bisogna tornare alla domanda di partenza: quando sarà passata l’estate e i ministri avranno fatto le vacanze ma non i compiti delle vacanze, che cosa si farà? Per dirla ancora più chiara: a chi spetterà di privarsi di un bel po’ di soldi per tappare i buchi di quel groviera che è il bilancio dello Stato? A sentire i membri del governo alla fine una soluzione si troverà e non c’è da strapparsi le vesti ora. I nostri ministri fanno mostra di ottimismo e sembrano riporre molta fiducia nelle decisioni di Bruxelles, confidando che un bel giorno la prigione europea nella quale ci siamo rinchiusi sarà costretta ad aprire la porta delle celle, concedendo un ammorbidimento del rigore penitenziario cui ci siamo condannati. Sarà perché siamo un po’ meno ottimisti dei rappresentanti dell’esecutivo, sarà perché certe lenze che stanno in politica le conosciamo bene e sappiamo che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, sta di fatto che preferiamo essere guardinghi e tener bene gli occhi aperti su ciò che bolle in pentola. Per questo ci corre l’obbligo di riferire una voce che da qualche tempo gira negli ambienti ministeriali e non solo. Il passaparola riferisce infatti che al momento giusto, quando la situazione si sarà ingarbugliata per bene e bisognerà porvi rimedio in tempi brevi; quando il Cavaliere grazie ai processi sarà alle corde e ridotto al silenzio dagli arresti domiciliari; cioè quando il Paese sarà cotto al puntino da essere servito in tavola, ecco arrivare la madre di tutte le soluzioni, ovvero l’arma letale per il ceto medio, vale a dire il prelievo forzoso sui conti correnti. La misura non è una novità per gli italiani, perché in passato fu usata da Giuliano Amato per far quadrare i conti. Senza dir niente a nessuno e profittando delle tenebre, l’allora presidente del Consiglio non guardando in faccia a nessuno scippò il sei per mille. Gente che doveva l’indomani pagare il mutuo, altri che si apprestavano a un acquisto e per questo avevano accumulato qualche risparmio depositandolo in banca, poveri pensionati che avevano incassato la liquidazione dopo una vita di lavoro, tutti si ritrovarono dalla sera alla mattina un po’ più poveri. La storia si ripete? Può darsi, almeno a sentire gli spifferi che girano in certi palazzi romani. Certo, conferme non se ne trovano e c’è da giurare che oggi, dopo la nostra anticipazione, fonti governative si incaricheranno di smentire l’ipotesi, giurando e spergiurando che nulla di tutto ciò è allo studio. Sarà. Ma per parte nostra, avessimo due euro, staremmo in campana. Risparmiatore avvisato, mezzo salvato. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet