L'editoriale
Rischio estinzione, il Pd a pezzi si consegna alla Cgil
di Maurizio Belpietro La notizia è di quelle che tramortiscono, perché nel mare di incertezze in cui viviamo toglie anche l’ultimo punto di riferimento. L’ho appresa dal Venerdì di Repubblica, supplemento patinato del quotidiano della sinistra radical chic. Stava nascosta in una pagina interna, tra la pubblicità di un divano letto e l’annuncio che finalmente anche Palermo avrà il suo gay pride. Una paginetta scarsa sotto il titolo: «Volontari Pd in rivolta: a rischio le feste dell’Unità». Sì, avete letto bene. Dopo settant’anni, a quasi un quarto di secolo dalla caduta del muro e almeno quindici dal pensionamento dell’organo ufficiale del comunismo (quello che va in edicola è uno zombie del fu quotidiano di Antonio Gramsci), rischiano di sparire anche le feste dell’Unità. Anzi, sono già sparite, perché come ci informa il Venerdì, per ora non è in calendario alcuna grigliata di salamelle. Neppure per l’appuntamento tradizionale, quello di Bologna, che è sempre stato il più importante e rappresentativo. A quanto pare, perfino nella patria del comunismo al lambrusco, si faticano a trovare militanti disposti a friggere e arrostire in nome del Sol dell’Avvenir. Mancano cuochi e cuoche, camerieri e baristi: in tutto un esercito di 500 persone che senza pretendere un euro, ma sacrificando le proprie ferie, facevano guadagnare al partito 4 milioni di euro, 400 mila dei quali di utile netto. Mica bruscolini, soprattutto perché portati a casa a forza di tortellini e ruote della fortuna. Forse qualche perfido osserverà che la festa non si fa perché non c’è niente da festeggiare. Eppure a Bologna non hanno mai mancato un appuntamento e gli stand li hanno aperti anche l’anno in cui il Pci è scomparso, quando per salvarsi, dopo il crollo dell’Unione sovietica, scelse di darsi alla macchia, cambiando nome e aspetto. No. Non era mai successo che saltasse un appuntamento, neppure quando il partito aveva imposto di cambiare titolo alle feste e da kermesse dedicate al giornale le avevano trasformate in più mosce feste democratiche, senza neanche una piccola falce e martello a ricordarne le origini. È vero, questi sono tempi duri. Il compagno Stalin è morto da un pezzo, Togliatti non c’è più e tanti altri dirigenti lo hanno raggiunto nel Pantheon del comunismo. Passi che le elezioni abbiano rottamato D’Alema e Veltroni e che perfino Bersani, il segretario che ha più culatello che fortuna, sia stato messo in soffitta come un mobile dismesso, ma pensionare la Festa dell’Unità a Bologna non si può. Se chiude anche quella vuol dire che a sinistra c’è solo il deserto e per dimostrare di essere ancora vivi sono ridotti ad andare all’isola dei famosi (Vladimir Luxuria, l’onorevole soubrette) o alla festa di matrimonio di Valeria Marini (Fausto Bertinotti, il testimone dello sposo). Insomma, dalla lotta di classe alle feste di classe, per questo non c’è più spazio per la Festa dell’Unità. La notizia, come dicevo, mi ha gettato nel più cupo sconforto, perché mi ha tolto una delle poche sicurezze che mi rimanevano nella vita. E cioè che qualsiasi cosa capitasse, la friggitoria democratica avrebbe aperto i battenti. Brutto segnale dunque, anche perché diffuso il giorno precedente la seduta di autocoscienza del Pd. Oggi infatti si terrà l’assemblea nazionale che, dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani, dovrà eleggere il nuovo segretario e la vigilia della riunione è stata confusa come non mai. All’appuntamento ogni corrente (i dalemiani, i renziani, i prodiani, i bersaniani e i pippiani, cioè i seguaci di Pippo Civati) si è presentata divisa e ognuno voleva presentare un suo candidato. Non solo: ogni componente della rissosa famiglia ha un conto da regolare e una vendetta da consumare. Dunque la riunione si prospettava potenzialmente dirompente. Ai vertici di quella che prima di incontrare Berlusconi fu una gloriosa macchina da guerra poteva arrivare chiunque, anche uno sconosciuto. Non a caso nei giorni scorsi, prima di essere affossati dai veti incrociati, sono spuntati candidati come Roberto Speranza e Gianni Cuperlo, cioè esponenti delle seconde se non delle terze file del partito. Ma alla fine, capita l’aria che tira, anche Speranza e Cuperlo si sono fatti da parte: il rischio di finire impallinati come Prodi e Marini nella corsa al Colle era troppo grande. Così, sull’orlo del baratro, i capi bastone del partito, non sapendo più che pesci prendere, si sono gettati nelle braccia di un usato sicuro come Guglielmo Epifani, ex leader della Cgil. Consegnati al sindacato per evitare l’esplosione. Ancora la vecchia, cara «cinghia di trasmissione», solo che questa volta funziona al contrario. Un disastro. Del resto, il caos è massimo e non nel senso di D’Alema. Anche con Epifani, il pericolo di estinzione non è ancora scongiurato. Sul suo nome non c’è l’unanimità. I dissidenti proporranno un loro candidato e, visto quel che capita ultimamente quando i democratici votano, oggi potrebbe accadere la stessa cosa che è accaduta con le feste dell’Unità, ovvero che il Pd scompaia prematuramente per la guerra tra i dirigenti e la sparizione degli elettori, che, come i volontari delle feste, non hanno più voglia di sporcarsi le mani per un branco di rissosi incapaci. I sondaggi già danno il Pd in forte decrescita dopo la nascita del governo di unità nazionale, ma più Letta dura e più i compagni si assottigliano. Non sappiamo quando verrà scritta la parola fine per quello che fu definito un partito nato dalla fusione a freddo di democristiani e comunisti. Sta di fatto che la strada sembra segnata. Ci sono voluti anni di liti e di congiure, ma soprattutto di errori, tuttavia alla fine la storia ha presentato il conto. Senza più il collante dell’ideologia, ma solo quello del potere, la sinistra è arrivata all’ultima spiaggia. E senza neppure più salamelle per far festa. maurizio.belpietro@liberoquotidiano.it