L'editoriale
Tifiamo Letta, ma l'inizio è stato pessimo
di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Servono sei miliardi in 20 giorni. Così scrive il Corriere della Sera, citando il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. Ma come, i conti non erano a posto? Mario Monti non si era presentato agli italiani nei giorni di Natale dicendo d’aver salvato l’Italia e, rispondendo a Pier Luigi Bersani, di essere pronto ad andarsene da Palazzo Chigi senza lasciare alcuna polvere sotto il tappeto? L’ex premier in effetti se n’è andato ma da sotto il tappeto invece della polvere spuntano alcune fatture da saldare nei prossimi giorni, a cominciare dal rifinanziamento della cassa integrazione per finire con 350 mila lavoratori che rischiano di rimanere sospesi, senza pensione e senza lavoro. A ciò si aggiunge la riforma dell’Imu e la cancellazione dell’aumento dell’Iva, fissato dal precedente esecutivo per la seconda metà dell’anno. Insomma, c’è bisogno di una montagna di quattrini ed Enrico Letta non sa dove mettere le mani, soprattutto in quali portafogli infilarle. Già, perché è vero che il neo presidente del Consiglio ha dichiarato che in Italia la pressione fiscale è eccessiva, ma è altrettanto vero che, quando si tratta di tappare i buchi, ogni governo è uguale agli altri. L’unica soluzione che sanno trovare i premier in difficoltà nel fare quadrare i conti è quella solita: alzare le imposte, scaricando sui contribuenti il peso della incapacità politica di tagliare la spesa pubblica e di liquidare il patrimonio dello Stato. Se davvero servissero 6 miliardi in venti giorni, così come ha anticipato il quotidiano di via Solferino, non esistendo un piano di dismissioni, né - nonostante Monti avesse incaricato un sottosegretario e un commissario ad acta di prepararlo - un programma per ridurre gli sprechi, c’è il rischio che Letta si faccia tentare dalla via più facile, quella appunto di far pagare agli italiani il prezzo di indecisioni e inettitudini decennali. Altro che restituzione dell’Imu e cancellazione dell’odiata tassa sulla prima casa. Qui si sta preparando una fregatura. Con qualche alchimia e con un po’ di furbizia, ciò che la mano destra del fisco restituisce al contribuente, la mano sinistra dello Stato rivorrà indietro con gli interessi. Eccesso di pessimismo? Affatto, diciamo che dopo anni di frequentazione del Palazzo siamo abbastanza scaltri da fiutare i furti con destrezza dei politici italiani, i quali in pubblico - cioè durante la campagna elettorale - predicano bene, promettendo sgravi e restituzione di tasse, ma in privato - quando stanno nella stanza dei bottoni e devono prendere decisioni - razziano malissimo, soprattutto i soldi degli altri. Occhio dunque, perché a naso abbiamo la sensazione che il rinvio dell’Imu annunciato non senza un certo trionfalismo dal premier, possa rivelarsi un boomerang. Non per chi l’ha lanciato, ma per i contribuenti. I quali a giugno non saranno chiamati a versare l’imposta sulla casa, ma a dicembre potrebbero dover aprire il portafogli per pagare la tassa che sostituirà l’Imu. Da quel che si intuisce - ne ha parlato ieri La Stampa di Torino - il nuovo balzello dovrebbe chiamarsi Ics, che non vuole dire sconosciuta ma Imposta Casa e servizi. La tassa X dovrebbe sostituire l’Imu, la Tares, l’imposta di registro (quella che si paga al momento dell’acquisto dell’abitazione) e l’addizionale comunale. Facile immaginare che il raggruppamento delle diverse gabelle con cui lo Stato ci delizia non sarà a saldo zero, nel senso che è assai probabile che alla fine la Ics costerà un x di più, come è sempre accaduto nel passato. Un fisco che faccia lo sconto pretendendo meno di quanto incassava prima in Italia non si è mai visto. Oh, certo, i tecnici giurano che si cercherà di alleviare i lavoratori dipendenti e i pensionati, ma questo significa una sola cosa e cioè che lo Stato batterà cassa col ceto medio, chiedendo a impiegati, artigiani, imprenditori e professionisti di pagare ciò che non paga qualcun altro. E infatti la Stampa ci informa che gli esperti del Pd sono già al lavoro («con il placet del premier Enrico Letta») per mettere a punto i meccanismi che consentano al fisco di trasferire sulle spalle del ceto medio il peso che oggi portano tutti gli italiani. Come si vede, di tagliare e di dismettere il patrimonio pubblico, unica soluzione per reperire i quattrini con cui finanziare la riforma fiscale (lo ha ricordato anche ieri Alberto Alesina sulle pagine del Corriere della Sera), non c’è alcuna intenzione. Monti o Letta non fanno differenza. Si continua nel solito modo. Lo stesso che ci ha portato ad avere un record di disoccupati e una delle crescite più basse dell’eurozona. E il Pdl dove sta? Ps. Caro Renato, ho letto la tua lettera dopo aver scritto l’articolo riportato qui sopra e come te penso che o questo governo dura, o sono guai. Perciò, anche se non si direbbe, faccio il tifo affinché Enrico Letta ce la faccia. Purtroppo però non posso nemmeno chiudere gli occhi e non vedere - in questo caso il pessimismo della ragione non c’entra - che da parte di alcune forze politiche della maggioranza non esiste alcuna voglia di pacificazione nazionale, ma semmai un desiderio di resa dei conti. Noi non siamo la Germania e non abbiamo messo l’interesse del Paese davanti a quello dei partiti. Per questo il governo non ha un programma «delineato fin nei particolari». Da noi l’esecutivo è nato «con qualche vizio d’origine», come riconosci tu e anch’io come te penso che se i vizi non saranno affrontati e risolti Letta e la sua squadra andranno a sbattere. Non per volere loro, ma per piacere di una parte del Pd. I pasticci e pastrocchi non mi piacciono. Io speravo in un accordo onesto fra forze che non si amano, ma che riconoscono di non avere alternative. Un’intesa in nome di un comune bene, quello degli italiani. Ci speravo e ci spero ancora. Non so però fino a quando.