L'editoriale
Magistrati e governo tifano clandestini per avere vita facile
Il reato di clandestinità intasa le Procure. Lo dicono i magistrati, lo ripete il capo della polizia. La conclusione è naturale: va abolito. Logico no? Mica tanto. Ci sono molti reati che danno vita a denunce e finiscono per ingolfare il lavoro dei magistrati. Si va dai furti agli scippi e volendo aggiungere anche agli stupri. A nessuno però viene in mente di abolire il reato perché così si renderebbe più sciolto il lavoro dei pm. Semmai si cercherebbe di migliorare la legge, in maniera che si evitino lungaggini procedurali, istruttorie, appelli e controappelli, ma credo che non ci sia persona sana di mente cui scapperebbe di dire che si deve cancellare dal codice penale il reato di stupro. E allora, perché all’improvviso invece l’ingresso clandestino nel territorio nazionale è diventato così poco interessante da mettere d’accordo tutti, ossia giudici, vertici della polizia e, ovviamente, sinistra? La risposta è semplice. Perché per tutti questi signori arrivare in Italia senza avere un permesso di soggiorno, vivere alla giornata nella speranza - nel migliore dei casi - di trovare un lavoro e - nel peggiore - di tirare a campare rubando, spacciando o ingrossando le fila di chi sfrutta la prostituzione, non è un reato. Quello che altrove è considerata una violazione grave, da punire anche penalmente, da noi è un atto che suscita generalmente indifferenza, ma qualche volta anche simpatia. Si tratta di un problema culturale. Per continuare a leggere l'editoriale di Maurizio Belpietro clicca qui e compra una copia digitale