L'editoriale
Al voto col tintinnar di manette
di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Può essere un caso che tutto il malaffare esploda a una settimana dal voto. Può essere una semplice coincidenza che da Milano a Bari, da Roma a Cagliari, ogni giorno ci sia un rinvio a giudizio o un’ordinanza di custodia cautelare, una condanna pronunciata o altre solo annunciate. Sta di fatto che, caso o meno, saremo costretti a recarci alle urne accompagnati dal tintinnar di manette. Qualcuno avvicina il periodo che stiamo vivendo a quello di quasi vent’anni fa, quando le elezioni furono anticipate dai provvedimenti dei pubblici ministeri di Mani Pulite, ma l’accostamento è improprio. Allora l’unico a finire dietro le sbarre nel pieno della competizione fu Mario Chiesa, il “mariuolo” del Trivulzio, ma più che irrompere nella contesa politica la magistratura si limitò a infilarci un piede. La grande retata cominciò nelle settimane successive allo spoglio: da lì in poi non passò giorno che non scattasse un arresto o che non si recapitasse un avviso a comparire. I politici entravano in Consiglio dei ministri come in sala d’aspetto, attendendo di vedersi consegnata l’ordinanza di una qualche procura, e le giornate erano scandite più che dalle ore dalle informazioni di garanzia, cioè dalla notizia che qualcun altro era stato beccato. Ma il tutto avvenne a posteriori, senza cioè alcun condizionamento della campagna elettorale. In questo caso, forse per evitare che le cose vadano a finire come vent’anni fa, l’intervento della magistratura è preventivo. Anziché rinviare a urne chiuse ogni provvedimento, sembra quasi che ci sia un’accelerazione a firmare in tempo la misura preventiva o a emettere la sentenza. È successo in Lombardia, dove i magistrati hanno chiuso le indagini a carico di Formigoni con grande tempestività, mettendo nero su bianco che l’ex governatore era a capo di una specie di banda criminale dedita alla speculazione sulla sanità pubblica e grazie alla quale avrebbe incassato svariati milioni sotto forma di viaggi-vacanze e cremine. Ovviamente l’atto dei pm ha comportato la messa in circolo di un certo numero di documenti, tra i quali gli accrediti all’ex fidanzata e i biglietti di ringraziamento, di modo che ci sia qualcosa di cui scrivere da qui al 24 febbraio. Prima che scatti il silenzio elettorale è giunta anche la sentenza che riguarda un altro ex governatore, questa volta della Puglia. Per Raffaele Fitto (in compagnia di uno dei proprietari della testata Libero) è fioccata una condanna a quattro anni in primo grado. Altre vicende non hanno avuto la stessa fortuna di ottenere un pronunciamento in tempi brevi, ma in questo caso la giustizia è stata sollecita, almeno per quanto riguarda il primo grado, poi si vedrà. Certo, dire che l’ex presidente sia stato contento di ricevere il cadeau a dieci giorni dal voto, mentre è impegnato in una difficile sfida elettorale, non si può dire. Ma tant’è. Come se già non bastassero queste due legnate in regioni chiave che potrebbero decidere il destino della prossima maggioranza di governo, ecco arrivare anche l’inchiesta Finmeccanica di cui già ci siamo occupati nei giorni scorsi. Ordinando l’arresto del presidente della società pubblica, il giudice si è premurato di chiarire che allo stato non vi è coinvolgimento di alcuna forza politica, ma le intercettazioni hanno messo comunque sulla graticola Roberto Maroni, candidato governatore della Lombardia, consentendo a Repubblica di titolare ieri a tutta pagina «Consulenze e favori, così il giro delle tangenti ha toccato anche la Lega». È immaginabile che da qui a domenica prossima verrà scritto anche di peggio. Risultato: quello che non riescono a fare le accuse a Formigoni viene fatto dalle insinuazioni contro Maroni. Ma non è finita: ieri mattina le manette sono scattate anche a Roma e Cagliari. Nel primo caso a finire nel mirino della magistratura è stato l’ex editore Angelo Rizzoli, un signore di quasi settant’anni piuttosto minato nel fisico. Non fosse stato per le sue condizioni di salute, l’accusa di aver provocato una bancarotta fraudolenta da 30 milioni di euro lo avrebbe portato direttamente in cella, ma poi, visti i certificati medici, i giudici si sono impietositi. Cosa c’entra l’uomo che fu il padrone del Corriere della Sera e che già ha patito i rigori del carcere con la campagna elettorale? C’entra, perché Rizzoli è marito di Melania De Nichilo, deputata del Popolo della Libertà e candidata nel collegio Lazio 1. Nei guai poi, anzi dietro le sbarre, c’è finito anche il presidente della squadra di calcio di Cagliari, Massimo Cellino, per una vicenda che riguarda il nuovo stadio della città. Per non incidere sulle consultazioni, insieme con lui sono stati arrestati un po’ di politici locali, ovviamente di area centrodestra. Arrestato pure, sempre ieri mattina, Gianluca Baldassarri, ex capo dell’area finanziaria di Monte dei Paschi di Siena, ma in questo caso non è filtrato ai giornali neppure un bigliettino. Forse perché i nomi eventualmente coinvolti sarebbero stati di centrosinistra? Proibito anche solo pensarlo. I magistrati sono indipendenti e non tifano per nessuno perché non hanno tendenze politiche di alcun tipo, e la vecchia storia delle toghe rosse è una bufala perché pm e giudici indossano solo toghe rigorosamente nere. Ciò detto, non era forse il caso di aspettare un attimo, cioè di lasciar passare qualche giorno, così che sentenze e arresti non incrociassero il voto? È vero che la giustizia è bendata, ma se ogni tanto si guardasse intorno e non lasciasse spazio al sospetto di essere strabica, non sarebbe meglio? Ps. In almeno un caso la dea col bilancino ieri è stata un po’ cieca: a Roma hanno assolto Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1 e candidato Pdl, dall’accusa di peculato perché il fatto non costituisce reato. Nel frattempo però il collega ci ha rimesso il posto.