L'editoriale
Chi vota per l'agenda Monti si troverà col libretto rosso
di Maurizio Belpietro Chi vota Mario Monti vota Bersani. Un Bersani annacquato, che potrebbe essere addolcito dall’alleanza con il centro del Professore, ma pur sempre un Bersani alla guida del più grande partito italiano della sinistra. E di quale sinistra si tratti lo si è visto pochi giorni fa, con le Parlamentarie che hanno premiato i candidati più radicali, non certo l’area liberal che fa capo a Matteo Renzi. Dalle consultazioni sono usciti vincenti Stefano Fassina e Cesare Damiano, esponenti dell’ala più vicina alla Cgil, senza contare i personaggi meno noti ma più duri scelti dagli iscritti. Se poi si aggiunge il principale alleato del segretario del Pd, ossia il governatore della Puglia Nichi Vendola, si capisce a che razza di governo l’attuale presidente del Consiglio auspica di fare da stampella. E che Monti, nella migliore delle ipotesi, sia destinato a diventare il sostegno di Bersani è certo. Nessuno con un grammo di cervello è infatti disposto a scommettere un euro sul successo del premier alle prossime elezioni. Bene che gli vada potrebbe arrivare secondo, ma sulla base delle rilevazioni di questi giorni è assai più probabile che si piazzi terzo, dietro il Cavaliere. Nel quale caso il Professore avrà ottenuto di raggiungere un risultato: regalare Palazzo Chigi a Pier Luigi Bersani. Conquistare il 10 o il 15 per cento alle liste che fanno capo a Monti non servirebbe assolutamente a nulla, se non a far vincere la sinistra, dividendo il fronte del centrodestra. Ottenere il consenso di un decimo dell’elettorato produrrebbe infatti l’effetto di non rendere in alcun modo condizionabile il centrosinistra, consentendo l’autosufficienza del governo Bersani-Vendola. Come abbiamo più volte spiegato, se esiste ad oggi una possibilità di fermare l’avanzata della sinistra verso la stanza dei bottoni, questa passa per la vittoria del centrodestra in Lombardia e nel Veneto. Spuntarla in alcune regioni chiave impedirebbe al Pd e ai suoi alleati di avere una solida maggioranza al Senato, costringendo dunque Bersani e i suoi a scendere a patti. Sarebbe così fermata l’avanzata di un programma economico tipo quello messo in campo da François Hollande in Francia, fatto di tasse e di provvedimenti punitivi nei confronti del ceto medio. Per capire che cosa sarebbe un governo di Pd più Sel è sufficiente leggere il piano presentato da Nichi Vendola per le primarie: patrimoniale, limitazione del contante a 300 euro, aumento di un punto d’imposta sui redditi men che minimi. A chi chiede come potrebbe sostenere una maggioranza con all’interno Nichi Vendola, il presidente del Consiglio fa capire che il voto alla sua lista servirebbe proprio a scongiurare tutto ciò e cioè a sterilizzare il peso della sinistra più radicale. Ma così non è: essendo in coalizione con il Partito democratico, Sinistra e libertà non otterrebbe i seggi derivanti dal sei per cento di cui è accreditata, ma grazie al premio di maggioranza ne avrebbe molti di più. Al contrario la lista Monti, sempre per effetto dei meccanismi della legge elettorale, incasserebbe molto meno del 10 per cento che le viene attribuito nei sondaggi. In pratica, Vendola non è sostituibile con il premier e dunque il Professore, facendo la stampella, sarebbe costretto a una convivenza a tre, con Bersani e pure con il governatore della Puglia. Ve lo immaginate il disastro? Un esecutivo moderato che ha al proprio interno la sinistra estrema? Quanto potrebbe durare? E soprattutto, ammesso e non concesso che possa resistere, che cosa potrebbe fare? Vendola vuole smontare la riforma delle pensioni e Monti che fa: smonta la legge che lui ha voluto e che gli ha fatto conquistare un po’ di stima in Europa? E magari butta nel cestino pure quella sul mercato del lavoro, ripristinando l’articolo 18? Se la si osserva con freddezza, si capisce dunque che la scelta di Monti, da qualsiasi parte la si prenda, è frutto di un errore di calcolo. Il Professore, salendo in politica, ha fatto male i suoi conti. Ritenendo di essere determinante, di poter condizionare Bersani, si è candidato alla guida di Palazzo Chigi con il proposito di applicare la sua agenda. Ma, bene che vada, il premier si troverà a offrire una ciambella di salvataggio al segretario del Pd, assicurandogli i numeri che potrebbero mancargli a Palazzo Madama, ma senza avere un vero potere di condizionamento e soprattutto con nessuna possibilità di condurre il Paese in sua vece. Altro che agenda Monti: se insisterà nel suo proposito finirà con il sostenere un esecutivo che metterà in pratica il libretto rosso dei pensieri di Mao.